La casa coniugale rappresenta, nella maggior parte dei conflitti di coppia, un momento di scontro estremamente forte, non essendo facile per nessuno dei due partner accettare l’idea di “perdere la casa” e di abbandonare il luogo degli affetti più cari.
La casa assume nel progetto di vita coniugale le connotazioni della stabilità e del vincolo; è il luogo degli affetti per eccellenza, il nido costruito con tanto sacrificio, lo scrigno che custodisce i ricordi, i vissuti e l’intimità della famiglia ed è anche il campo nel quale la coppia sperimenta il progetto del vivere insieme, condividendo le gioie e i dolori che si accompagnano inevitabilmente alla vita di ognuno di noi.
Durante la fase patologica della crisi di coppia, la casa diventa invece teatro di scontri più o meno quotidiani, di silenzi, di incomprensioni, di litigi e non raramente anche di violenze e di aggressioni più o meno gravi.
Ed è così che il luogo che dovrebbe rappresentare il “porto sicuro” nel quale ognuno di noi desidera essere cullato si trasforma in un palcoscenico di sofferenza e di dolore e si traduce, nelle aule giudiziarie, in argomento di scontro e di rivendicazioni.
La decisione in merito a quale dei due coniugi o conviventi avrà il privilegio di continuare a restare in casa implica sempre sofferenza ed anche una certa resistenza psicologica, essendo indubbio che l’abitazione famigliare assume una pregnante valenza non solo materiale ma anche simbolica, proprio alla luce dei significati che racchiude in sé.
Il Giudice chiamato a dirimere le controversie famigliari incontra peraltro dei limiti nell’assegnare all’uno o all’altro coniuge l’abitazione coniugale, e può pronunciare sul punto solo laddove vi siano figli minorenni o già maggiorenni ma non ancora economicamente indipendenti.
Se non vi sono figli minori o maggiorenni non autonomi, il Giudice non potrà invece disporre della casa e, pur autorizzando i coniugi a vivere separati, si asterrà dal decidere in merito, con tutti i problemi pratici connessi; se poi nessuno dei due coniugi avrà cura di allontanarsene spontaneamente, il coniuge titolare del diritto esclusivo di proprietà dovrà attivarsi per ottenere un ordine di rilascio con apposita domanda al Tribunale Ordinario competente per territorio; se invece si tratta di casa in comproprietà di entrambi i coniugi, chi avrà interesse dovrà dare corso al giudizio per lo scioglimento della comunione.
E’ bene quindi sapere che il diritto a permanere nella casa coniugale non è mai dell’adulto in sé considerato (neppure se si tratta del coniuge economicamente più debole o malato o disagiato) ma è un diritto esclusivamente del minore o del figlio maggiorenne non autonomo, il quale dovrà vedersi assicurata la continuazione dell’habitat domestico precedente alla separazione dei genitori.
Dopo l’entrata in vigore della legge n. 54/2006 che ha affermato il diritto del minore alla “bigenitorialità”, ovvero il diritto a mantenere rapporti regolari e significativi con ciascun genitore anche in caso di separazione personale degli stessi, la casa coniugale non viene più assegnata come un tempo al genitore affidatario ma al genitore c.d. “collocatario della prole” (si badi che questa è una creazione giurisprudenziale perché la legge non parla in alcun modo di collocatario), ovvero a quel genitore che avrà in carico il figlio per la maggior parte del tempo; essendo la madre il genitore che, per prassi, continua ad essere gravato delle principali responsabilità di cura verso il figlio, nella stragrande maggioranza dei provvedimenti la casa coniugale viene assegnata alle madri, affinchè vi abitino con i figli minorenni o già maggiorenni ma non autosufficienti e finchè questi avranno conseguito l’autonomia.
Il diritto di assegnazione della casa coniugale non è un diritto di natura reale (come ad ex l’usufrutto o il diritto di abitazione) ma ha natura di diritto personale di godimento atipico, vale a dire configura una mera detenzione, subordinata ad un provvedimento del Giudice della separazione o del divorzio, ovvero del Giudice minorile se trattasi di coppie non unite da vincolo matrimoniale.
Mi sembra interessante citare una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, Sezione I civile, 22 marzo 2010, n. 6861, la quale ha affermato che non perde il diritto alla assegnazione della casa il genitore convivente con il figlio maggiorenne anche laddove la convivenza non sia continuativa trovandosi il figlio per lunghi periodi lontano da casa per ragioni di studio o di lavoro, “sussistendo pur sempre un collegamento stabile con la casa familiare ove il figlio faccia ritorno ogniqualvolta gli impegni glielo consentono (…)”.
Avv. Paola Carrera
Avvocato in Torino, membro del direttivo A.I.A.F. Piemonte e Valle d’Aosta – Associazione Italiana degli Avvocati della Famiglia e dei Minori