Il riconoscimento di paternità una volta effettuato è irrevocabile.
Questo non significa, però, che non possa mai essere contestato quando si pensi che non corrisponda al vero.
Il nostro ordinamento prevede due azioni specifiche a seconda che si tratti di contestare il riconoscimento dei figli naturali (nati cioè fuori da vincolo matrimoniale) ovvero di figli legittimi (nati in costanza di matrimonio).
Per far accertare e dichiarare la mancanza di un rapporto effettivo biologico di filiazione, nel caso di filiazione legittima si dovrà esperire l’azione di disconoscimento di paternità, contemplata all’art. 235 codice civile; nel caso di filiazione naturale si dovrà proporre l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, ai sensi dell’art. 263 cod. civile.
Si tratta, in verità, di due azioni molto diverse, sia nei termini di impugnazione che nei presupposti e questo si spiega perché, nel caso di filiazione naturale predomina il “favor veritatis”, vale a dire che l’interesse privilegiato dal legislatore è quello di avere un atto dello stato civile corrispondente alla verità biologica.
Nel caso, invece di filiazione legittima, l’ordinamento si ispira alla tutela del “favor legittimatis”, di talchè l’azione deve essere proposta entro brevi termini, altrimenti il figlio manterrà quello status attribuitogli alla nascita anche se non corrispondente al vero.
Per quanto, infatti, oggi si possa affermare che i figli conoscono una sostanziale equiparazione nei diritti e nei doveri, il nostro ordinamento continua a rimandare l’unificazione della disciplina della filiazione, rinunciando così ad armonizzare il diritto di famiglia alla mutata coscienza sociale, che sempre più massicciamente vede crescere le unioni di fatto e le nascite in assenza di vincolo matrimoniale.
Mentre dunque l’azione di disconoscimento di paternità può essere proposta solo dai genitori o dal figlio stesso ed è soggetta a rigide preclusioni temporali, l’impugnativa del riconoscimento del figlio naturale può essere proposta sia dal genitore autore del riconoscimento, sia dal figlio riconosciuto divenuto maggiorenne ma anche da “chiunque vi abbia interesse”; è stato chiarito che l’interesse a proporre l’azione può essere anche solo di natura squisitamente morale e non necessariamente giuridica (potrà dunque, ad esempio, agire anche il coniuge di chi ha operato il riconoscimento non veridico).
L’azione ai sensi dell’art. 263 cod. civile non è soggetta a termini di prescrizione o di decadenza e questo significa che potrà essere proposta in ogni tempo, a differenza, come sopra visto, dell’azione di disconoscimento di paternità che è soggetta a termini di decadenza molto ristretti, diversi a seconda delle ipotesi contemplate all’art. 244 cod. civile.
Nel giudizio di impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità la madre non è legittimata passiva all’azione, vale a dire che non è parte necessaria del processo, anche se potrà intervenire volontariamente; sono invece litisconsorti necessari il soggetto che ha operato il riconoscimento impugnato, il soggetto che contesta la veridicità del riconoscimento e il figlio il quale, se minore di età, starà in giudizio con la rappresentanza di un curatore speciale nominato dal Tribunale.
Nella maggior parte dei casi le azioni di stato riguardano i minorenni che sono notoriamente soggetti giuridicamente incapaci di agire, di talchè il curatore speciale è quella figura professionale che rappresenta in giudizio il minore e ne cura i suoi interessi.
Con l’azione di impugnativa del riconoscimento viene messa in discussione l’autenticità del rapporto di filiazione tra l’autore del riconoscimento e il figlio riconosciuto e la prova della insussistenza del legame biologico può essere data con ogni mezzo, anche con testimoni e con presunzioni.
Il Tribunale dispone però sempre, di prassi, l’indagine del DNA che è prova regina, che consente di accertare o di escludere, con evidente certezza, la compatibilità fra il patrimonio genetico dei genitori e quello del figlio riconosciuto.
Se il giudizio conferma la non veridicità del riconoscimento il Tribunale ordinerà, all’Ufficiale dello stato civile, l’annotazione della sentenza a margine dell’atto di nascita e la conseguenza sarà quella della perdita del cognome attribuito al minore alla nascita e la sostituzione con il cognome materno.
Non è però sempre automatico il risultato della perdita della cognome perché, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidatosi in epoca recente, il Tribunale potrà autorizzare la conservazione del cognome attribuito al figlio al momento della nascita, se questo sia già divenuto elemento connotativo e distintivo della sua identità personale.
Ricordiamo che l’azione di impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità è consentita anche quando il soggetto che ha operato il riconoscimento era in mala fede, sapeva cioè fin dall’origine di non essere il padre del figlio riconosciuto (tipica è la casistica dell’uomo che riconosce il figlio che la compagna ha avuto da precedente relazione).
Occorrerà però non trascurare il fatto che tale condotta integra gli estremi del reato di “falsa dichiarazione all’ufficiale di stato civile”, reato tipizzato e punito all’art. 495 c.p..
Avv. Paola Carrera
Avvocato in Torino, componente del Direttivo A.I.A.F. Piemonte e Valle d’Aosta – Avvocati Italiani per la Famiglia e i Minori