“Per aiutare i figli a crescere bene,
i genitori devono guardare lontano.
A volte lontanissimo.
E’ nella seconda parte della vita, infatti,
che la salute può presentare il conto.
I bambini hanno bisogno di imparare buone abitudini,
che proteggano il loro sviluppo ma anche la loro vita adulta”
(anonimo)
Vi chiederete perché mai un avvocato dovrebbe interessarsi ai temi delle abitudini alimentari e alle patologie legate all’obesità e la risposta confido possiate trovarla in questo articolo.
Sappiamo che il nostro ordinamento normativo ci impone, in quanto genitori, di prenderci cura dei nostri figli, di mantenerli, di istruirli e di educarli, tenendo conto delle loro capacità, delle loro inclinazioni naturali e dello loro aspirazioni, di garantir loro la libertà, il diritto alla scolarizzazione, alla salute, prerogative tutte riconosciute dalla nostra Carta Costituzionale alla stregua di diritti fondamentali della persona e inviolabili.
L’art. 32 della Carta ci ricorda che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività (…..)”.
E allora non ritengo che sia del tutto fuori tema interrogarsi, come operatore del diritto, sul rapporto fra le nostre abitudini – ma sarebbe forse meglio dire, “cattive abitudini” – e la valenza dei doveri e delle responsabilità che l’essere genitori ci impone.
Prendersi cura di qualcuno e, nella fattispecie di un essere bambino, significa evidentemente garantirgli e assicurargli condizioni di benessere, inteso non necessariamente come ricchezza economica ma come contesto famigliare e socio ambientale, prima di tutto sano, adeguato alla sua età e al servizio dei suoi bisogni primari.
Ci è noto come autorevoli studi abbiano denunciato la crescita dell’obesità nella popolazione infantile, unitamente al dilagare dei disturbi dell’alimentazione, con un drastico abbassamento della soglia di età dei soggetti che ne soffrono; si osserva, infatti, un incremento esponenziale della prevalenza dei soggetti sovrappeso ed obesi ed un trend di anticipazione dell’età della pubertà.
La rapidità e l’entità di tali fenomeni rende palese l’influenza di fattori ambientali (apporti di energia e nutrienti, dispendio energetico) che è particolarmente importante nei primi periodi della vita, in quanto essi sembrano avere non solo effetti immediati sull’accrescimento del bambino, ma anche sul “programming” endocrino-metabolico dell’individuo, condizionandolo per tutta la vita.
Occorre, dunque, di fronte a queste evidenze scientifiche, mettere in discussione le abitudini e gli stili di vita che la famiglia moderna, magari anche inconsapevolmente, trasmette ai figli.
Non voglio certo affermare che causa dell’obesità infantile sia sempre e solo la famiglia, ma temo non si possa fare a meno di attribuire alla famiglia – salvo l’esistenza di patologie specifiche neppure, però, così frequenti – responsabilità oggettive nel condizionare, inevitabilmente e a volte irreversibilmente, lo stato di benessere fisico psichico dei figli.
In alcune esperienze giudiziarie europee ed extraeuropee, gli Stati Uniti in primis, si è già iniziato ad avanzare la tesi senso cui dietro forme di obesità infantile gravi si celi un’incuria dei genitori idonea ad integrare, in alcuni casi, ipotesi di “maltrattamento” e sono giunti all’osservazione dei servizi sociali nuclei famigliari ritenuti problematici proprio in ragione delle pessime abitudini alimentari date ai figli.
Credo dunque sia fondamentale, prima di ogni altra riflessione, chiarirsi sul significato della parola “maltrattamento” e, forse, uno spunto interessante possiamo coglierlo dagli atti del IV Seminario Criminologico (Consiglio d’Europa, Strasburgo 1978), laddove si definiva la condotta di maltrattamento “gli atti e le carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, che attentano alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di terzi”.
Il maltrattamento può dunque concretizzarsi non solo in condotte attive (percosse, lesioni, abusi, violenze, ipercur ecc.) ma, anche, in condotte di tipo meramente omissivo (incuria, trascuratezza, negligenza, abbandono, privazione).
Da qui all’affermare, però, che l’obesità dei figli possa essere condotta stigmatizzabile a tal punto da rendere legittimo un provvedimento di decadenza dalla potestà genitoriale e di allontanamento dei figli dal nucleo famigliare, è un passaggio logico sul quale è doveroso interrogarsi con severo rigore.
Abbiamo tutti sentito parlare del caso di una coppia scozzese alla quale sono stati tolti quattro dei sette figli nati dalla loro unione – nella fattispecie, quattro ragazzini in età compresa fra gli 11 e i 5 anni – perché tutti gravemente in sopvrappeso (pare che il dodicenne pesasse un centinaio di chili mentre la sorellina di 11 anni raggiungesse già i 75 Kg e la piccola di tre anni avesse un peso che si aggirava sui 25 Kg).
Anche se gli atti del procedimento non risultano essere pubblici, pare che la famiglia fosse stata, in origine, segnalata al servizio sociale a seguito di una denuncia di uno dei figli, che accusava il padre di percosse a suo danno; la denuncia si era poi rivelata infondata, essendosi accertato che il bambino si era procurato da solo delle lesioni, senza responsabilità del padre.
L’occasione aveva però dato modo al servizio sociale di constatare come tutti i componenti della famiglia, ad eccezione forse di un figlio, presentassero condizioni di obesità grave, tanto allarmante da aver messo in moto un rigoroso monitoraggio da parte delle autorità della comunità di Dundee.
La coppia genitoriale era stata, infatti, da quel momento, tenuta in osservazione dal servizio sociale e, nonostante una serie di prescrizioni salutistiche per tentare di modificare le loro abitudini alimentari, con divieti di somministrare ai figli il c.d. “cibo spazzatura”, a vantaggio di alimenti sani e ipocalorici, nonché di prescrizioni affinchè i bambini svolgessero attività fisica e sportiva, il problema dell’obesità non era stato risolto.
La famiglia era stata, quindi, sottoposta ad un regime restrittivo della libertà, vivendo per circa due anni in casa protetta, sotto la costante osservazione di assistenti sociali e di educatori durante la somministrazione dei pasti. Anche questo sforzo non aveva, però, a quanto si legge, prodotto risultati apprezzabili.
Falliti dunque i progetti messi in atto dal servizio sociale nel tentativo di rieducare l’intera famiglia, la decisione tanto penalizzante quanto discussa e discutibile del Dundee City Council di allontanare definitivamente i bambini dalla famiglia per darli in adozione a terzi.
La notizia è stata riportata e commentata dai media come sconcertante, come discriminatoria nei confronti di chi non ha proprio un peso nella norma ed è stata vissuta come un’invasione pesante ed ingiusta delle autorità nella sfera privata che ciascuna famiglia dovrebbe vedersi garantita.
E’ dunque lecito chiedersi se l’obesità, anche se grave e cronica, possa essere considerata motivo di inadeguatezza genitoriale così importante, da legittimare un provvedimento di decadenza dalla potestà e di privazione della relazione con i figli.
Come sempre, non credo che la risposta possa essere data con superficialità e per categorie generali, essendo d’obbligo, tanto più di fronte a decisioni destinate ad incidere irreversibilmente sul futuro di una persona, avere di vista il contesto famigliare particolare dal quale la vicenda si è originata.
Probabilmente, se avessimo a disposizione gli atti del procedimento, potremmo scoprire che i genitori, alla cui versione i media hanno dato risonanza, non hanno detto proprio tutto e, magari, hanno taciuto alcuni aspetti che, invece, potrebbero aiutarci a meglio chiarire le ragioni di un provvedimento tanto drastico da parte delle autorità giudiziarie.
Quello che è certo è che se l’autorità scozzese ha ritenuto di spezzare il legame con la famiglia a fronte di un unico elemento di criticità dei genitori, cioè il loro essere obesi e la loro incapacità di salvaguardare correttamente la salute dei loro figli, ci vuole un po’ di coraggio per condividere la decisione, posto che non sarei così convinta che il “male minore” sia quello di sradicare un figlio alla famiglia, alla quale si sente di appartenere e alla quale lo legano vincoli affettivi insostituibili.
Diversa sarebbe, invece, l’opinione nel caso in cui la decisione di allontanare i figli da quella famiglia trovi ragione non solo e non tanto nell’incapacità di quei genitori di assumere abitudini alimentati più sane, quanto, semmai, dall’osservazione di una serie di comportamenti ritenuti a rischio evolutivo per i figli, idonei cioè a pregiudicarne in modo irreversibile la loro integrità fisica e psicologica.
E’ indiscutibile infatti che, in casi di forte obesità, il problema non è più limitato al dato estetico ma riguarda il bene della salute, la cui tutela deve essere massimamente garantita e tutelata, prima di tutti da chi sul bambino esercita le responsabilità genitoriali.
Occorre però interrogarsi, per capire quale possa essere il danno minore, tra il privare un bambino del legame con la famiglia che gli ha dato la vita e che lo ha cresciuto magari per diversi anni o lasciarlo affidato ai genitori che, pur con evidenti limiti e con oggettive carenze sotto il profilo dell’igiene alimentare, gli sono comunque affezionati e, a modo loro, sentono di amarlo di volerlo proteggere.
Un bambino, anche se vittima di violenze e di abusi, non è quasi mai contento di perdere la sua famiglia e percepisce l’intervento dell’autorità estranea al rapporto come una violenza che aggiunge dolore alla sua già infelice esistenza; ecco perché, credo fermamente che, prima di aderire ad istanze che tendono a recidere i legami parentali primari, sia d’obbligo valutare e adottare strategie di intervento che, salvaguardando le relazioni affettive, siano capaci di incidere sulle dinamiche famigliari, educandole, modificandole e sanandole, perché tutto in fondo può essere perfettibile.
Educare, però, a tutti i livelli un bambino, e ancor di più un adulto “patologico”, costa molta più fatica e richiede disponibilità e risorse che le istituzioni non sempre sono in grado di garantire.
Avv. Paola Carrera
Avvocato in Torino, consigliere del Direttivo A.I.A.F. Piemonte- Associazione Italiana degli Avvocati della Famiglia