Ridate l’infanzia ai bambini: se vogliamo che la vita dei nostri figli sia più felice, produttiva e morale, dobbiamo concedere più tempo al gioco, non meno. Gli studenti trascorrono quasi tutto il tempo a studiare e hanno poche opportunità di essere creativi e scoprire le proprie passioni.
Peter Gray, domenica 12 gennaio 2014, scrive il seguente articolo pubblicato sulla pagina web dell’ Independent, nella sezione Voices.
I° PARTE
Sono un bio-psicologo e ricercatore, ho un PhD e di scuola ne ho fatta davvero molta. Sono bravo a risolvere problemi, nella vita e sul lavoro, ma questo ha ben poco a che fare con le cose che ho studiato a scuola. Ho studiato algebra, trigonometria, calcolo e tanta altra matematica, ma non ricordo di aver mai dovuto far fronte a un problema, persino nel corso della mia ricerca scientifica, che richiedesse l’utilizzo di queste competenze. La matematica che mi è servita è molto specialistica e, come molti altri scienziati, l’ho appresa sul lavoro. I veri problemi che mi è capitato di dover affrontare nella vita sono stati di natura fisica (come mettere in funzione una nuova apparecchiatura al lavoro o sbloccare lo sciacquone a casa), sociale (come far sì che quella donna perfetta si interessasse a me), morale (se dare o meno la sufficienza a uno studente premiando il suo impegno nonostante che avesse fallito tutte le prove d’esame) o emotiva (fare i conti con il dolore per la perdita della mia prima moglie o non perdere la testa dopo essere caduto nell’acqua gelata mentre pattinavo su un lago ghiacciato).
Gran parte dei problemi della vita non possono essere risolti con formule e risposte mnemoniche del genere che si impara a scuola. Richiedono invece il giudizio, il buon senso e l’abilità creativa che provengono dall’esperienza. Per i bambini questa esperienza è radicata nel gioco. Sono fortunato, sono cresciuto negli Stati Uniti durante gli anni Cinquanta, alla fine di quella che lo storico Howard Chudacoff definisce l’epoca d’oro del gioco libero per i bambini. La necessità del lavoro minorile era diminuita moltissimo decenni prima, e gli adulti non avevano ancora iniziato a derubare i bambini della libertà conquistata. Andavamo a scuola ma non era un grosso impegno come oggi. Alle elementari si stava a scuola sei ore ma avevamo mezz’ora di ricreazione al mattino e mezz’ora il pomeriggio, più un’ora a pranzo. Gli insegnanti non sempre ci controllavano, semmai a distanza, ma se lo facevano intervenivano di rado. Facevamo la lotta nel giardino della scuola, ci arrampicavamo sugli alberi nei boschetti adiacenti, giocavamo con i coltelli e d’inverno facevamo a palle di neve; niente di tutto ciò sarebbe permesso oggi in nessuna delle scuole pubbliche che conosco. Fuori dalla scuola avevamo qualche incombenza domestica da sbrigare e alcuni avevano lavoretti part-time come la distribuzione dei giornali (che ci davano un senso di raggiunta maturità e una piccola indipendenza economica), ma, per il resto, eravamo liberi di giocare per ore ogni giorno dopo la scuola, tutto il giorno durante il fine settimana e per tutta la durata dell’estate. I compiti non esistevano alle elementari ed erano minimi nella scuola secondaria. Sembrava che allora ci fosse una comprensione implicita del fatto che i bambini avessero bisogno di molto tempo libero per giocare.
Scrivo ora in risposta alla notizia che questa settimana lo School Teachers’ Review Body (organismo pubblico indipendente che offre consulenza al Dipartimento dell’Educazione e riferisce al Segretario di Stato in Inghilterra e Galles per ciò che riguarda gli obblighi professionali, gli stipendi e le ore lavorative del corpo insegnante, ndt.) dovrà riferire a Michael Gove, segretario per l’educazione, a proposito del piano che quest’ultimo ha definito per aumentare le ore scolastiche e diminuire la durata delle vacanze. La speranza del segretario è che l’aumento delle ore di scuola innalzerà i punteggi nei test del Regno Unito ai livelli della Cina, di Singapore e di altre nazioni dell’Est Asiatico. È paradossale che la proposta di Gove sia apparsa solo pochi mesi dopo la pubblicazione, da parte del ministero cinese per l’educazione, di un rapporto – intitolato “Dieci norme per la diminuzione del carico accademico nella scuola Primaria” – in cui si prevede la diminuzione dell’orario scolastico, dei compiti, nonché l’assegnazione di un’importanza minore al punteggio nei test come strumento di valutazione scolastica.
Gli educatori nelle nazione dell’Est Asiatico stanno riconoscendo sempre più il massiccio fallimento del proprio sistema educativo. Secondo lo studioso Yong Zhao, autore esperto del sistema scolastico cinese, un termine comune utilizzato per riferirsi ai “prodotti” della scuola in Cina è gaofen dineng, che in sostanza vuol dire bravo a fare i test ma pessimo in tutto il resto. Poichè gli studenti trascorrono quasi tutto il loro tempo studiando, hanno poche opportunità di essere creativi, di scoprire e perseguire le proprie passioni, o di sviluppare abilità fisiche e sociali. In più, come rivelato da una recente indagine condotta su larga scala da ricercatori britannici e cinesi, i bambini cinesi che vanno a scuola soffrono di livelli straordinariamente alti di ansia, depressione e disordini da stress psicosomatico, legati alle pressioni accademiche e alla mancanza di gioco.
Tutti i bambini piccoli sono creativi. Nel loro gioco e nelle esplorazioni libere e indipendenti creano propri modelli mentali del mondo che li circonda, nonché modelli di mondi immaginari. Gli adulti che definiamo geni sono coloro che in qualche modo conservano e sfruttano questa capacità infantile per tutta la vita. Albert Einstein diceva che la scuola aveva quasi distrutto il suo interesse per la matematica e la fisica, ma che si era ripreso quando aveva lasciato la scuola.
Si riferiva al suo lavoro innovativo definendolo “gioco combinatorio”. Affermava di aver sviluppato il concetto di relatività immaginando se stesso che rincorreva un raggio di sole e lo acchiappava, riflettendo poi sulle conseguenze. Non possiamo insegnare la creatività, ma possiamo inaridirla attraverso insegnamenti che non si fondino sulle domande spontanee dei bambini, bensì su domande imposte da un programma predefinito che si comporti come se tutte le domande avessero una sola risposta esatta e tutti dovessero imparare le stesse cose.
II° PARTE
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Il dr. Peter Gray è professore e ricercatore di psicologia al Boston College e autore dell’acclamato “Psychology” (Worth Publishers). Il suo libro più recente è ‘Free to Learn: Why Unleashing the Instinct to Play Will Make Our Children Happier, More Self-Reliant, and Better Students for Life’ (Basic Books)
Testo tradotto dall’inglese da Michela Orazzini