Riprendiamo il discorso interrotto con il precedente articolo su genitorialità e importanza di considerarsi genitori competenti, al di là dei pareri di manuali ed esperti.
Ci siamo lasciati parlando di imprinting. L’imprinting nell’Uomo è collegato ad un processo cerebrale che dura circa trentasei mesi chiamato “sinaptogenesi” e che rappresenta la piena formazione dei collegamenti sinaptici, più semplicemente la maturazione di base del cervello.
Come sappiamo, infatti, nell’Uomo si parla di “esogestazione” per indicare come i nove mesi di vita intrauterina non siano sufficienti al feto per svilupparsi completamente. Una grossa parte del cervello, con annesse tutte le su funzioni, si sviluppa dopo la nascita.
E a chi spetta far sì che il tutto proceda per il meglio? Chiaramente ai genitori.
L’imprinting infatti è un processo irreversibile, che dura tutta la vita. E’ legato alla memoria, che farà da riferimento per le future esperienze relazionali: svilupperemo una personalità e faremo delle scelte relazionali proprio in base a quanto abbiamo “appreso” su di noi e sul mondo circostante nei primissimi anni della nostra vita.
L’attaccamento è un comportamento innato, il primo ad essere messo in atto dal bambino già al momento della sua nascita e serve per mantenere vicini un individuo totalmente immaturo ed un individuo totalmente maturo che svolga per il primo le funzioni che questo non è in grado di svolgere da solo per la propria sopravvivenza.
Lo scopo ultimo dell’attaccamento è dunque quello di essere “protetti dalle minacce” del mondo circostante (ieri predatori, oggi incidenti, malattie, pedofili, pericoli in generale).
Studi pioneristici dimostrano come il “cucciolo” non ricerchi solo la soddisfazione di bisogni fisiologici primari – non vizi! – (fame, sete, sonno, addirittura “sesso” secondo la teoria freudiana), ma prevalentemente sia mosso dalla ricerca di protezione e di relazione.
Questa breve digressione per sottolineare come la genitorialità vada di pari passo con i bisogni dei bambini e non viceversa. Comprendere cosa significhi essere genitori implica necessariamente la conoscenza di cosa significhi essere bambini. Non si può parlare seriamente di genitorialità escludendo uno dei due protagonisti della relazione.
La genitorialità è sostanzialmente la nostra risposta di accudimento alle normali e naturali richieste affettive del bambino e credo debba essere intesa soprattutto rispetto al proteggere e all’amare chi abbiamo messo al mondo, dal momento che da solo non può farlo.
In questo senso credo che i genitori, nei primi anni di vita del bambino, rappresentino a tutti gli effetti un “corpo in comodato d’uso ai propri figli”. Il genitore è agevolato in questo, perché è la natura stessa del bambino che lo spinge alla ricerca di protezione, unico vero comportamento per lui fondamentale. La natura infatti ha donato al bambino una serie di “caratteristiche” specifiche che gli permettono di riuscire in questo suo intento:
a) la “configurazione infantile”: testa e occhi grandi, pelle liscia, movimenti goffi, rotondità. Tutte caratteristiche del bambino che attraggono il genitore verso di sé;
b) l’ attenzione del bambino “focalizzata” sul viso della madre, sia a livello visivo, sia a livello acustico: “Ehi, io sono qui, mi vedi? Non distrarti!”;
c) il “sorriso ammaliante”: anche nei bambini nati ciechi, a dimostrazione del fatto che il sorriso rappresenta un comportamento non appreso, ma innato, che ha l’unico scopo di avvicinare a sé il genitore;
d) il “pianto” come richiesta di attenzioni e non come “capriccio”: chi può rimanere impassibile di fronte al pianto di un bambino?
Il bambino perciò fa di tutto per poter essere protetto dai genitori, massimizzando l’utilizzo degli “strumenti comportamentali” in suo possesso per attirare la loro attenzione.
E’ inoltre dotato di risposte innate che mettono in risalto proprio questo suo bisogno di attaccamento:
a) il “riflesso di presa”: lo stringere le dita al semplice passaggio di un dito per esempio;
b) il “riflesso di Moro”: il bambino sollevato tende ad “aggrapparsi” al genitore per non cadere;
c) il “riflesso di suzione”: il tendere a succhiare appena ci si avvicina intorno alla bocca con la mano o con un oggetto;
d) il “riconoscere” l’odore materno (anche al buio). E la madre riconosce quello del figlio.
Insomma, il bambino molto piccolo non fa altro che dire: “Ehi sono qui! Mi raccomando non distrarti da me! Ho bisogno di te, senza te non vivo!”. Lo fa, ripeto, perché programmato per farlo. Non sa probabilmente fare altro, ma questo gli riesce davvero bene!
Cosa deve fare allora un genitore per essere un bravo genitore?
Semplicemente rispondere con il suo naturale amore, che si tradurrà in “adeguate cure parentali” come risposta alle richieste e ai bisogni del bambino. Questo “è” il genitore e il “cosa” ci si aspetta da lui. E’sicuramente molto impegnativo e faticoso, ma il “cosa” fare è tutto qui. Per le “regole” e l’ “educazione”, sicuramente importanti, ci sarà tempo.
Invece il “come” fare non ce lo può insegnare davvero nessuno, ce l’abbiamo già dentro di noi. Credo che una volta stampati bene in mente quei pochi fondamentali e universali passaggi di cui sopra, il più è fatto. Il “come” tradurre tali concetti (scientifici) in strategie genitoriali è a vostra libera espressione.
S. Agostino diceva “Ama e fai quello che vuoi”: ebbene, amate incondizionatamente i vostri piccoli bambini, fate quello che vi sentite di fare, il “come” farlo sta a voi. Ognuno di noi, infatti, ogni bambino, ogni relazione genitori-figli rappresenta una realtà unica e irripetibile.
Ho sempre avuto un grande fiducia nell’essere umano, nel suo cuore e nella sua intelligenza e sono perciò convinto che ognuno di noi è potenzialmente in grado di vivere nell’amore e nel rispetto degli altri. Nella testa e nel cuore di ognuno di noi, se lo vogliamo, troveremo incredibili risorse per svolgere al meglio, in modo naturale, il nostro ruolo di genitori.
Per i consigli legati alla nutrizione, alle malattie dell’infanzia, più in generale per tutto ciò che concerne la parte “fisico-medica” del bambino è evidentemente logico rivolgersi ad un medico-pediatra, ma per tutto quanto concerne la “vostra” relazione con il “vostro” bambino fate da voi.
Napoleone era solito dire ai suoi soldati che voleva che sulla punta dei loro fucili ci fosse un’ “idea”. Ecco, sarebbe opportuno che ognuno di noi pensasse con la propria testa e con il proprio cuore a come relazionarsi con il proprio bambino, senza indottrinamenti o interferenze esterne. Anche il genitore infatti, come abbiamo visto, è programmato geneticamente per reagire alle richieste infantili. Sappiamo che nella neo-mamma si innalza l’ossitocina, il cosiddetto “ormone dell’amore” o delle “coccole”, segno evidente che il nostro stesso corpo ci “suggerisce” di empatizzare di più con il nostro piccolo.
Ma torneremo ad affrontare questo e altri aspetti…nel mio prossimo articolo! 😉
Alessandro Costantini