Quando, a fine dicenbre, il quotidiano britannico The Mirror rese noto che Denise Sumpter, una madre del Regno Unito, allattava ancora la figlia Belle, di sei anni e mezzo, due esperte furono invitate a un dibattito sul tema.
Una delle due – infermiera professionale, ostetrica e consulente di allattamento – disse che la Sumpter era “una fonte d’ispirazione” e fece notare i “benefici emotivi e fisici” di cui stava godendo la bambina. L’altra, un’ostetrica in pensione, impegnata a sostegno dell’allattamento in qualità di counselor, dissentiva e insisteva nell’affermare che in Inghilterra l’allattamento prolungato fino a 6 anni “non è necessario, né normale” perché la bambina potrebbe essere ridicolizzata e perché i benefici sono ormai inesistenti. Nell’articolo, la Sumpter stessa osserva che la preoccupazione dei critici è che sua figlia diventi emotivamente troppo dipendente da lei (mentre sottolinea che Belle dimostra di essere matura per la sua età).
Quando, ai primi di gennaio, la storia è arrivata qui negli USA la risposta dei lettori è stata esplosiva. Un articolo del Cosmopolitan, per esempio, ha avuto 24.000 condivisioni. Fra i 1.176 commenti vi erano giudizi molto duri che andavano dal “terribile” al “nauseato”, fino al “disgustoso” riferito all’allattamento prolungato. Molti altri commenti erano invece di sostegno per la Sumpter.
Perché la scelta di una donna di allattare la figlia più a lungo della maggior parte delle altre scatena una simile reazione emotiva?
Noi antropologi notiamo spesso che gli esseri umani si sono evoluti in un contesto in cui allattare i figli per tre o quattro anni era il modello più tipico e salutare, e la variazione individuale nella durata dell’allattamento è da prevedere. Perciò, ho deciso di andare più a fondo nell’analisi del clamore che si è scatenato attorno a Denise Sumpter e sua figlia; ho contattato l’antropologa Katherine Dettwyler, dell’Università del Delaware, con una vasta esperienza interculturale nella ricerca sull’allattamento.
La dottoressa Dettwyler ha risposto via mail alle mie domande sul caso Sumpter e sui possibili costi e benefici di un allattamento prolungato, la sua replica è riportata per intero:
“Le mie ricerche, e le ricerche di altri sui primati non umani e sui mammiferi diversi dai primati, suggeriscono che l’allattamento della prole per diversi anni come gli altri grandi mammiferi, finché non spuntano i primi denti permanenti (5,5 – 6 anni negli umani), è una cosa “naturale” per noi esseri umani. In altre parole, è ciò che è sotteso alla nostra norma evolutiva, biologica e psicologica come specie.
Nessuna ricerca suggerisce che la durata normale dell’allattamento per la specie umana (che vai 2,5 ai 7 anni o più) porti a una “dannosa dipendenza emotiva”. Esistono prove che un allattamento prolungato (o meglio “a termine” – ndr), affiancato dal sonno condiviso con i genitori durante l’infanzia, favorisca bambini più indipendenti e che raggiungono punteggi più alti nelle misurazioni delle competenze sociali.
“Direi che i benefici di un allattamento a lungo termine – fino a quando lo desiderino sia la madre sia il bambino – sono enormi. L’allattamento a lungo termine favorisce il normale sviluppo del cervello, della struttura ossea facciale, del sistema immunitario, nonché una resilienza emotiva alle avversità della vita. Per quello che so, non esistono “costi” per il bambino. Se la madre non desidera continuare ad allattare, allora certo non dovrà sentirsi costretta, quale che sia l’età del bambino. È bene sapere, però, che allattare un bambino di 6-7 anni o più è perfettamente normale, naturale e sano, e ogni timore di danno emotivo del tutto infondato”.
L’ultima versione delle raccomandazioni dell’Accademia americana di pediatria in materia di allattamento offre ampie prove dei benefici che l’allattamento ha per la salute del bambino e conferma la prospettiva della Dettwyler, soprattutto in questa frase: “L’AAP raccomanda l’allattamento esclusivo per circa 6 mesi, con prosecuzione per 1 anno o più a lungo, finché sia desiderio comune di madre e bambino.”
So che i critici potrebbero appigliarsi alla parola bambino (nell’originale “infant”, ossia bambino piccolo, di solito entro i due anni -ndt), e far notare che un bambino di 6 anni non rientra nella categoria. È da considerare, peraltro, che nel suo editoriale per la rivista Clinical Lactation del 2012, Kathleen Kendall-Tackett, psicologa e consulente di allattamento, fa notare che l’allattamento prolungato si è ormai “dichiarato pubblicamente”, con il dirompente sostegno ricevuto da chi lo pratica. La stessa Dettwyler rientra in questo gruppo, lo dichiara senza reticenze, e ha affrontato con me l’argomento:
“Esistono tante, tantissime persone negli Stati Uniti che sono state allattate fino a 3 anni e oltre, e lo stesso vale per gli altri Paesi occidentali. Non è una cosa rara o inusuale come di solito si crede. Ma le madri sanno bene di dover passare la cosa sotto silenzio in una cultura dove rischiano di essere accusate di abuso sessuale, di vedersi togliere i figli dai servizi sociali, o di perderne la custodia nelle battaglie legali. Tutte cose già successe.
“Incoraggio le persone a gridarlo ai quattro venti una volta che i figli siano diventati grandi. Ecco perché non temo più di raccontare alla gente che mia figlia è stata allattata fino a 4 anni, e il mio più piccolo fin quasi a 5 anni e mezzo. Mia figlia Miranda ora ha 34 anni, ha un Master of Arts in fisica e sta per completarne un altro in architettura; vive nel Galles con il marito e due figli, il più grande dei quali ha preso il latte fino a 5 anni, e il più piccolo di 2 è ancora allattato. Mio figlio Alex ha 23 anni, è laureato in antropologia, vive a Ann Arbor, nel Michigan, e lavora come chef. Sono entrambi felici di dire a chiunque glielo chieda che sono stati allattati per molti anni.”
Credo sia importante dare ascolto non solo alla scienza – la salute fisica e le prospettive evolutive dell’allattamento a lungo termine – ma anche alle storie personali come quelle di Denise Sumpter e Katherine Dettwiler.
Mi domando quanto siamo unici noi esseri umani in questa pratica dell’allattamento prolungato. Nella nostra specie non sono solo le norme e le prassi culturali ad avere un loro ruolo distintivo, come è ovvio, ma anche notevoli differenze biologiche ci distinguono dagli altri mammiferi. Come mi ha scritto via mail Katie Hinde, del Laboratorio di ricerche comparative sulla lattazione dell’Università di Harvard:
“In questa discussione dobbiamo considerare la co-evoluzione genetico-culturale, in quanto in tutti gli altri mammiferi la prole smette di produrre l’enzima lattasi abbastanza presto nel percorso evolutivo ontogenetico – di solito nella transizione dall’infanzia alla gioventù – così che non riesce più a digerire il latte materno. Solo per il fatto che alcune popolazioni umane abbiano la prassi culturale di consumare prodotti caseari potrebbe essere stata favorita l’attivazione di geni che permettano la persistenza della produzione di lattasi per il consumo di latte animale?…
“Credo che dovremmo seriamente considerare il fatto che negli esseri umani un allattamento molto a lungo termine (più di 5 anni) senza problemi digestivi potrebbe essere un effetto secondario della co-evoluzione genetico-culturale che ha prediletto il consumo di prodotti caseari.”
È fantastico, e dimostra quanto l’allattamento prolungato sia un bell’esempio di comportamento umano bio-culturale, reso possibile sia dall’evoluzione della nostra fisiologia, sia dalle conoscenze apprese sulle pratiche genitoriali più salutari.
Traduzione dall’inglese di Michela Orazzini
tratto da www.npr.org