“Quest’anno per la prima volta dopo tanti inizi di anni scolastici traumatici e deprimenti, il nostro settembre è stato dolce. Hai fatto il tuo ingresso in una scuola media romana che fa dell’inclusione dei disabili una bandiera. E così tutti abbiamo smesso di sentirci fastidiosi ingombri per la affannata e spesso falsamente inclusiva scuola pubblica, e abbiamo cominciato a sentirci allievi a pieno titolo anche noi.
Fino ad oggi è stato un mezzo disastro, e durante questo cammino così impervio abbiamo dovuto imparare ad accontentarci. I disabili finiscono per essere una bella rottura di scatole per la scuola che a parole tanto promette, questo l’abbiamo capito, ma siccome nessuno può davvero ammetterlo, persino le mamme meno sofisticate dei tuoi compagni in questi anni hanno imparato a ripetere “questi bambini danno tanto ai nostri figli!” e quindi abbiamo potuto credere di avere una qualche utilità sociale.
Per un periodo di tempo ci siamo sentiti tanto fortunati: con un poco di esperienza – leggi astuzia – siamo riusciti a garantirti un sostegno scolastico adeguato. Altrimenti in una scuola normale non saresti potuto andare, con le sole due ore al giorno di affiancamento concesse in partenza. Così hai guadagnato un’insegnante (di ruolo!) e un ”assistente educativo culturale” tutti per te. La scuola era piena di persone sorridenti e di famiglie gentili, e a noi era bastato, e a tutti raccontavamo di quanto tu fossi un disabile dalle millle fortune.
Per anni invece non ci siamo resi conto che non si stava trattando propriamente di integrazione, perché le insegnanti della classe non sapevano da che parte cominciare, e perché i tuoi compagni erano gentili e bendisposti e le ragazzine, bello come sei, ti stavano sempre intorno, ma nessuno aveva capito dove mettere le mani; un progetto inclusivo mirato al beneficio congiunto tuo e degli altri non c’è mai davvero stato, e quindi della classe è come non avessi fatto davvero parte, ma fossi stato una curiosa addizione.
Alla fine del ciclo delle elementari, per includerti proprio al massimo la gita scolastica era stata organizzata a Villa d’Este a Tivoli, dove è tutto un saliscendi, e all’obiezione che per un carrozzato non fosse proprio la destinazione ideale, l’insegnante di italiano aveva risposto che di altre destinazioni (a Roma..) non se ne trovavano più per via della quantità di richieste e quindi… E quindi tu sei rimasto a casa, e in gita con i compagni di cinque anni passati tutti insieme non sei andato.
L’inclusione, figlio, alla fine così com’è adesso è una gran fregatura. La fregatura di un paese sgangherato che non sa gestire spazi e luoghi adatti ai disabili, per i quali programmare davvero un buon lavoro mirato per fargli sviluppare qualche abilità, in luoghi frequentati anche dai normodotati ma allo stesso tempo attrezzati con strutture tarate sui bisogni di chi normale non è.
Perciò in alternativa ai ghetti segreganti delle vituperate scuole speciali ci si è inventati, vantandosi di continuo dell‘eccezionalità del caso italiano, la bella favola dell’inclusione tra i normodotati ma senza avere abbastanza strumenti, risorse e a volte neanche reale volontà.
Le maestre della scuola materna che molti anni fa ci ostinavamo a farti frequentare, per i quattro anni trascorsi lì hanno impiegavano la maggior parte del loro tempo a ingegnarsi su come scaricarti ad altre colleghe, e noi al posto delle proteste che avrebbero meritato in pieno abbiamo sempre elargito sorrisi e comprensione, per non rovinare rapporti che nella nostra psiche labile da famiglia handicappata avrebbero finito per danneggiare te – così bisognoso di solidarietà, così fragile.
La stessa cortesia controllata che ci impediva di scagliarci contro i terapisti del centro convenzionato, quasi mai puntuali all’ora di inizio delle sedute – perché tanto le terapie sono apparentemente gratuite e allora ci si può permettere di offrire il servizio al paziente come fosse un’elargizione e non una prestazione che indirettamente sta pagando.
Ma in fondo la cosa che da popolazione di paradossali invisibili ingrombranti ci è pesata di più, è l’assenza delle minime attenzioni che per te e per noi sono tanto, e a cui gli altri per incuria neanche pensano, pur quando ti hanno accanto ogni giorno e dovrebbero di conseguenza avere pensieri banalmente quotidiani per la tua famigerata inclusione: recite scolastiche cui in qualche modo partecipi, per le quali viene allestito un parterre di sedie senza corridoio per far passare la tua carrozzina, prima delle quali neanche noi genitori riusciamo a sapere quale sarà il tuo ruolo e come poterti aiutare a presentarti con il potenziale sia pur ridotto che hai. Un gradino rotto all’ingresso che da anni rende un’operazione acrobatica entrare a scuola, ma a nessuno è venuto mai in mente di livellarlo con un po’ di calcestruzzo. I maniglioni del bagno handicap gettati chissà dove perché tanto si è pensato che non servissero, mai più acquistati di nuovo per due lunghi anni.
Un’auletta di decompressione e attività psicomotorie per te utilissima, inutilizzabile per un anno e mezzo, tanto ci è voluto perché scuola e municipio si rimbalzassero fax e responsabilità su chi dovesse sistemarla (e che sono stati poi i tuoi genitori ad arredare, tanto per provare ancora una volta se ce ne fosse bisogno, che riesce a far qualcosa il disabile che ha qualche soldo da utilizzare).
Figlio scusa, io so che sei andato volentieri a scuola in questi anni, che la compagnia dei ragazzi è stata fondamentale, che la buona volontà di alcune singole persone per te è stata un bel regalo, ma credimi, quanti bocconi amari, quanto spreco, quanta rassegnazione e quanti ripensamenti in questa sbandierata inclusione.
Adesso l’aria è diversa, e a noi quasi non pare vero. Le persone sono un gruppo compatto di teste pensanti e di buon senso che si aiutano l’una con l’altra, cercano di continuo delle soluzioni, provano a sostenere la nostra e le altre famiglie disabili che sono state accolte. Accoglienza è la parola giusta. Ci siamo sentiti subito a casa e parte della squadra, normali persone che la mattina portano il loro figlio in un posto in cui sanno che è ben seguito, rispettato, tenuto in attività durante un orario scolastico fisso, in cui una istutuzione se ne prende cura senza lagnarsi e senza accampare scuse per rimbalzarcelo a casa. Sembra il minimo sindacale, ma appunto non lo è. E la loro buona volontà e la loro intelligenza a te e a noi hanno cambiato la vita”.
Paola Vitali