N.B: questo testo di Hanna Rosin è la 4° PARTE (l’ultima) di un articolo più lungo che abbiamo chiamato “Il bambino super protetto“.
Se vuoi leggere la 1° PARTE “Il bambino super protetto: l’esempio del parco giochi ”The Land” clicca qui
Se vuoi leggere la 2° PARTE “Riflessioni sull’educazione “al rischio” e bambini super protetti: tra controllo e libertà” clicca qui
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Una preoccupazione comune ai genitori odierni è che i figli crescano troppo in fretta. Eppure, a volte sembra che non abbiano affatto spazio per crescere; diventano solo abili nell’imitare i modi degli adulti. Come mostra la ricerca di Hart, un tempo i bambini acquisivano responsabilità in modo graduale, anno dopo anno. Attraversavano la strada, andavano nei negozi; alcuni di loro finivano per fare lavoretti nel vicinato. Il loro orgoglio era ammantato di competenza e indipendenza, che crescevano man mano che sperimentavano e si perfezionavano in attività sconosciute l’anno prima.
Oggi, i bambini della classe media perlopiù saltano queste tappe fondamentali. Trascorrono gran parte del tempo in compagnia di adulti, parlano e pensano come loro ma non raggiungono mai quella sicurezza necessaria per essere davvero indipendenti e far affidamento su se stessi. Negli ultimi tempi, la mentalità dei genitori si conforma alle linee di classe definite dalla sociologa Annette Lareau dell’Università della Pennsylvania. I genitori della classe media vedono i propri figli alla stregua di “progetti” e si impegnano in quello che la studiosa chiama “educazione pianificata”, il perseguimento attivo dell’arricchimento dei propri figli. La classe lavoratrice e i genitori poveri, d’altro canto, parlano meno con i propri figli, seguono i loro progressi meno da vicino, e promuovono quello che la Lareau chiama “il conseguimento di una crescita naturale”, lasciando forse i propri figli più impreparati a condurre da adulti una vita borghese. Molti hanno interpretato le sue scoperte come la prova che gli stili genitoriali della classe media sono, nel complesso, superiori. Ma potrebbe trattarsi di una conclusione troppo semplicistica e opportunista. È più probabile che ogni forma di educazione abbia qualcosa da suggerire all’altra.
Quando Claire Griffith, la direttrice di The Land, chiede donazioni per finanziare i suoi innovativi spazi di gioco, spesso elenca i vantaggi concreti dell’attirare i bambini all’aperto: lotta all’obesità, sviluppo delle abilità motorie. Parla anche degli stessi aspetti che stavano a cuore a Lady Allen tanti anni prima: incoraggiare i bambini a correre dei rischi per sviluppare la fiducia in se stessi. Ma gli aspetti più vaghi dei benefici legati a una cultura dell’infanzia meno restrittiva sono assai più difficili da spiegare in una richiesta di finanziamento, anche se confermati dagli esperimenti.
All’inizio del 2011, ad esempio, la Scuola elementare Swanson, in Nuova Zelanda, si è sottoposta a un esperimento universitario e ha acconsentito a sospendere tutte le regole vigenti durante la ricreazione, permettendo ai bambini di correre, arrampicarsi sugli alberi, fare lo scivolo su una collinetta fangosa, saltare dalle altalene e giocare nel “recinto di materiali e oggetti disparati”, una sorta di mini parco avventura. I maestri temevano il caos, in realtà hanno ottenuto minor bullismo e disobbedienza, infatti, secondo il parere del preside, i bambini erano troppo impegnati e coinvolti per pensare a combinare guai.
In un saggio dal titolo “The Play Deficit”, Peter Gray, lo psicologo del Boston College, registra le conseguenze negative dovute alla perdita della vecchia cultura dell’infanzia; si tratta di una lista di mali ormai noti attribuiti al millennio: depressione, narcisismo, declino dell’empatia. Nell’ultimo decennio, secondo uno studio del 2012 condotto dall’American College Counseling Association, la percentuale di ragazzi in età universitaria che fanno uso di psicofarmaci ha subìto un’impennata. Psicologi professionisti hanno scritto (su questa testata e su altre) a proposito della peculiare crisi di identità che queste generazioni stanno affrontando: una paura di crescere e, nelle parole di Brooke Donatone, terapista a New York, un’incapacità “di pensare con la propria testa.” Nel suo saggio, Gray mette in evidenza il lavoro di Kyung-Hee Kim, psicologo educativo al William and Mary College, autore di una pubblicazione del 2011, “The Creativity Crisis” (La crisi della creatività). Kim ha analizzzato i risultati del Torrance test per la misurazione del pensiero creativo e ha scoperto che i punteggi dei bambini americani hanno subìto un calo sistematico nell’ultimo decennio e anche prima. I dati dimostrano che i bambini sono diventati:
“Emotivamente meno espressivi, sono meno vivaci, parlano meno e hanno minori capacità verbali, minor senso dell’umorismo, minore immaginazione; sono più conformisti, meno appassionati ed esuberanti, meno perspicaci e pronti nel mettere in relazione cose all’apparenza irrilevanti; hanno minori capacità di sintesi e più difficoltà a guardare le cose da una prospettiva diversa.”
La caduta maggiore, notava Kim, si è avuta nella misura dell’”elaborazione”, ovvero della capacità di prendere un’idea e ampliarla in modi nuovi e originali. Gli stereotipi sul nuovo millennio hanno allarmato i ricercatori e i genitori, al punto che questi hanno iniziato a respingere la cultura del controllo genitoriale. Molti libri recenti sulla genitorialità hanno promosso una ritirata, fra questi Duct Tape Parenting, Baby Knows Best e The Kids Will Be Fine. Nel suo eccellente All Joy and no Fun, Jennifer Senior afferma che i genitori si rovinano la vita credendo di dover sempre massimizzare la felicità e il successo dei propri figli. Nel Regno Unito la paranoia sulla sicurezza sta scemando. L’equivalente britannico della Consumer Product Safety Commission ha da poco rilasciato una dichiarazione nella quale afferma di “volersi assicurare che preoccupazioni malriposte sull’incolumità e la sicurezza non creino ambienti di gioco sterili che non offrono sfide e impediscono ai bambini di sviluppare le proprie conoscenze e affinare le proprie abilità.” Durante il mio soggiorno nel Regno Unito, Tim Gill, l’autore di No Fear, mi ha portata in un parco giochi londinese appena costruito che mi ha fatto tornare in mente i vecchi tempi; c’erano scivoli lunghi e ripidi adagiati su una collina rocciosa, strapiombi e pareti rocciose su cui arrampicarsi, poche aree recintate. Nel frattempo, il governo Gallese ha adottato in modo esplicito una strategia per incoraggiare fra i più piccoli il gioco attivo e indipendente, anziché quello fondato sui libri, aprendo la strada a una quantità di parchi avventura come The Land e altre iniziative analoghe. Difficile dire se gli americani si accorgeranno del nuovo atteggiamento britannico, sebbene vi siano alcuni segnali di speranza. In America vi è un crescente interesse per “gli asili nel bosco” di stile europeo, dove ai bambini viene data ben poca istruzione formale e hanno più libertà di esplorare nella natura. A Washington, D.C., non lontano da dove vivo, abbiamo finalmente il nostro primo parco giochi eccitante da quando era stato abbattuto il “parco dimenticato”. Situato in una scuola privata, la Beauvoir, ha una teleferica e delle strutture per arrampicarsi che i bambini percepiscono come pericolose. Di recente, ho incontrato qualcuno che lavora nel parco e gli ho chiesto come mai il consiglio direttivo della scuola non si è fatto dissuadere da preoccupazioni legate alla sicurezza, soprattutto considerando che il parco è aperto al pubblico nel fine settimana. Mi ha risposto che il consiglio direttivo era preoccupato per la sicurezza ma voleva anche che il parco fosse eccitante; del resto le linee guida, nonostante gli anni trascorsi, restano ancora solo delle linee guida. Ma la vera trasformazione culturale dovrà venire dai genitori.
Esiste una grande differenza fra evitare i rischi maggiori e prendere ogni decisone con l’intento principale di ottimizzare la sicurezza del bambino (o il suo arricchimento, o la sua felicità). Non possiamo creare un ambiente perfetto per i nostri figli più di quanto non possiamo creare dei figli perfetti. Credere diversamente si trasforma in una delusione, una delusione nociva; è bene ricordarlo ogni volta che iniziamo a farci prendere dal panico. Mentre il sole tramonta su The Land, noto con la coda dell’occhio che un bidone grigio, del tipo di quelli per la raccolta differenziata, sta per essere spinto giù dal pendio che porta al torrente. La testa di un bambino spunta dalla cima del bidone e riconosco mio figlio. Pe
rsino secondo i miei standard abbastanza rilassati, la situazione sembra azzardata. La luce sta svanendo, il pendio è molto ripido e Christian, il bambino che sta spingendo, ha solo 7 anni. Inoltre, il torrente è gelido e non ho vestiti di ricambio per Gideon. Non ho visto mio figlio un granché durante il pomeriggio. I bambini, senza genitori, acquisiscono abitudini da branco, perciò, in quanto novizio e più giovane di tutti, è stato preso in carico dai veterani di The Land. Mi avvicino abbastanza per sentire lo scambio di battute.
“Potresti cadere nel torrente”, dice Christian.
“lo so”, risponde Gideon.
Christian ha già insegnato a Gideon ad arrampicarsi sullo scivolo più alto e a manovrare la corda penzolante. A questo punto ha conquistato maggior fiducia. “Ti spingo piano, va bene?”, “pronti, partenza, via!”, è la risposta di Gideon. È andato giù, ed è planato nel torrente. Secondo la mia esperienza, Gideon è molto schizzinoso con l’acqua. Non tollera che neppure una goccia gli finisca sulla manica mentre si lava i denti. Non ho affittato un’auto per questo viaggio, e la donna che ci ha accompagnati se ne è andata per un po’. Inizio a riflettere sul modo di poter rimediare dei vestiti asciutti. Potrei bussare alla porta di qualche vicino? Chiedere a Christian di chiamare suo padre? Oppure, se non ci fossero alternative, potrei persuadere Gideon a sedersi per un po’ accanto al fuoco dei ragazzi più grandi?
“Sono bagnato”, dice Gideon a Christian, e poi scappano a reclamare qualche martello per costruire un nuovo fortino.
Tradotto da Michela Orazzini
Testo originale di Hanna Rosin, pubblicato su www.theatlantic.com