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Homeschooling e socializzazione

Se lo sviluppo delle competenze sociali fosse indissolubilmente legato alla scuola (o da essa dipendente), mi verrebbe da chiedermi come socializzano gli adulti. E anche come si socializzava nei tanti, tantissimi secoli in cui, pur senza scuola di massa, si sono prodotte grandi civiltà e società.

La scuola, evidentemente, non è l’unico luogo in cui imparare a relazionarsi con il diverso da sé e a vivere interazioni serene ed equilibrate.
Altrimenti dovremmo concludere che, una volta conclusa, non si socializza più e che la vera socialità nella storia dell’Uomo ha cominciato ad esser praticata solo da un secolo e mezzo, cioè con l’inizio dell’esperienza della scuola di massa.

Forse, però, si può affermare che la scuola è una sorta di facilitatore di socializzazione?

Un canale preferenziale per l’esercizio delle relazioni interpersonali?
Certo non il migliore, se consideriamo la solitudine talvolta disperata di molti giovani scolari, oppure i vari problemi di maleducazione, aggressioni, violenza e bullismo (in tutte le forme in cui ormai anche questo termine si declina) e i tanti, troppi fatti che occupano quotidianamente la cronaca.

In effetti, alcuni tra i più autorevoli studiosi recenti o contemporanei¹ insegnano che la frequentazione esclusiva o prevalente di coetanei rappresenta un ostacolo sia all’apprendimento che allo sviluppo di solide competenze relazionali. È una legge biologica, cioè propria della nostra natura): si impara da persone di età diverse; preferibilmente dai più grandi, ma anche dai più giovani. Il bambino sente subito, istintivamente, di aver poco da imparare da quelli della sua età. E ciò è tanto più vero se questa frequentazione è forzata, artificiosa o comunque non frutto di una scelta spontanea.

La formazione del gruppo classe per età risponde in effetti, tra l’altro, all’esigenza di creare un’unica relazione principale: quella alunno-docente.
Lo vediamo già dalla disposizione dei posti in una classe tradizionale: gli alunni guardano tutti solo l’insegnante; fra loro si voltano le spalle, o, nella migliore delle ipotesi, si vedono di profilo, da un’angolatura di 90°, superiore alla naturale potenzialità di torsione del nostro collo. Parlarsi risulta molto difficile in queste condizioni.
La scuola inoltre è organizzata in modo che non ci sia tempo per fare molto altro rispetto alla lezione gestita dal docente e una pausa veloce in cui si devono anche soddisfare bisogni corporali. Il tempo per coltivare le relazioni interpersonali con altri allievi è veramente ridotto al minimo, se non si vuol rientrare nel novero di quelli che chiacchierano e che magari rischiano di essere penalizzati con note o brutti voti in condotta.

Con il sistema delle valutazioni e del premio-punizione, a scuola si incentivano di fatto, volenti o nolenti, al di là di tutte le dichiarazioni di intenti, la concorrenza e l’antagonismo molto più della cooperazione e della solidarietà.

Il cosiddetto gruppo classe solitamente ha una struttura e delle dinamiche interne piuttosto statiche e tendenti a mantenersi o a ripetersi nel tempo: c’è il leader, sempre quello per tutto l’anno scolastico, il simpatico all’insegnante, o il lecchino, il secchione, poi ci sono i loro amici, anche loro più o meno sempre gli stessi; non mancano gli esclusi dalla cerchia dei privilegiati, quelli che interagiscono poco, i riservati.
Com’è possibile, in questo contesto, allenarsi a vivere delle interazioni sociali complesse?

O meglio: non è forse più varia e dinamica la famiglia inserita nella società all’esterno della scuola, in cui grandi e piccoli si relazionano in modo continuamente nuovo e creativo? Non è più ricca di situazioni la realtà quotidiana di un gruppo di volontariato o di un oratorio, di un centro giovanile, di una banda cittadina o di un’associazione sportiva o culturale? Non ci sono più occasioni di incontrare il diverso da sé e di sviluppare atteggiamenti di reale accoglienza, collaborazione, accettazione dell’altro in un contesto veramente multiculturale e vario, com’è quello delle nostre comunità?

Molti di noi che abbiamo un percorso scolastico alle spalle hanno, o hanno avuto, amici fra i compagni di scuola. Per fortuna!
Però questo non dimostra nulla: quanti ne avremmo potuti avere se non fossimo andati a scuola? Siamo in grado di asserire che ne avremmo di meno? O di meno buoni?


di Nunzia Vezzola
Docente di scuola superiore, mamma homeschooler e socia fondatrice dell’Associazione Istruzione Famigliare – www.laifitalia.it.


¹ John Holt, André Stern, Peter Grey, Céline Alvarez, per esempio.

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