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Si può definire violenza ostetrica una serie di abusi verbali e fisici subiti durante l’assistenza al parto e, più in generale, in ambito ginecologico.
In questo articolo, tradotto dalla rivista francese Grandir Autrement, riportiamo l’intervista fatta a Lucie, 33 anni e madre di due bambini, che è stata vittima di violenza ostetrica. Lucie racconta come ha vissuto il parto, un’esperienza piena di amarezza, e quali conseguenze continua a pagare in seguito agli abusi subiti. Spera così di cancellare il tabù che ancora grava sulla sua situazione e su quella di molte altre donne, di essere ascoltata e riconosciuta, e di fare in modo che altre mamme possano esprimersi sull’argomento.

Vuoi testimoniare sulla violenza ostetrica di cui sei stata vittima. Puoi dirci quando è successo?

Durante il mio secondo parto, il 6 Novembre 2014, presso l’ospedale di Bordeaux. Ho il diabete di tipo 1 e non ebbi altra scelta per possibili rischi di complicazioni.

Cosa è successo veramente?

Mi indussero il parto attraverso lo scollamento delle membrane. Siccome la cervice era aperta solo 2 centimetri, mi chiesero di andare a fare una passeggiata che però non servì a molto.
Mi fecero l’epidurale e l’iniezione di ossitocina. Il bambino aveva problemi a uscire, così mi misero sulla “birthing ball” sul letto e la cervice si dilatò molto rapidamente, fino a 10 cm. Spingevo, ma mio figlio aveva ancora difficoltà a scendere. Dopo un po’ per fortuna arrivò l’ostetrica: continuava a chiedermi di spingere, spingere, spingere finché finalmente mi fecero toccare la testa del mio bambino. All’improvviso però gridarono: “Basta!”.
Penso sia stato quello il momento in cui mi sono lacerata. L’ostetrica ci mise poi molto tempo a ricucire il perineo. Mi diedero una camera doppia con il mio bambino, ma l’ostetrica di turno che mi aveva appena fatto partorire non venne mai a trovarmi dopo il parto.
Desideravo molto allattare e riuscii a fare la poppata di benvenuto. Poi però mi chiesero di scegliere tra il biberon e l’allattamento al seno, senza alcun sostegno per quest’ultimo. Tuttavia, scelsi il seno, perché così avevo allattato il mio primo figlio, ma tra il dolore, l’ipoglicemia, la stanchezza per le conseguenze del parto, alla fine cedetti e rinunciai ad allattare. Per come l’ho vissuta, è stata una scelta presa contro la mia volontà.
Un mese dopo rividi l’ostetrica che aveva seguito la mia gravidanza. Lo capii dal suo sguardo che qualcosa non andava. Le domandai allora quale fosse il problema e lei mi rispose: “Ci vediamo tra un mese”. All’inizio di febbraio mi disse: “Dobbiamo parlare” e, a bassa voce, aggiunse: “Sei stata ricucita male, tra l’ano e la vagina c’è una distanza di un millimetro, dovremo ricostruire tutto”. Mi raccomandò dei chirurghi dell’ospedale universitario, ma mi rifiutai di tornare in ospedale e preferii andare da un privato.
Feci una manometria. Il medico mi disse che il mio sfintere era rotto, così presi un appuntamento con un proctologo per lo sfintere anale e con un ginecologo per la ricostruzione del perineo, con una lacuna vulvare. Queste ricostruzioni sono durate quattro anni durante i quali mi sono sottoposta a diversi interventi chirurgici: ricostruzione della cavità vulvare, perineo e sfintere anale ricostruiti tre volte. Fu molto complicato.
Dopo la prima operazione un punto su un’arteria saltò, l’arteria scoppiò e io ebbi un’emorragia. Finii in ospedale d’urgenza e mi ricoverarono. Poi feci un anno e mezzo di riabilitazione perineale con un fisioterapista, al termine del quale il proctologo si sorprese che il fisioterapista non si fosse occupato della rieducazione anale. Avevo praticamente perso un anno. Tornai quindi per altre sessioni: ancora sei mesi di rieducazione anale, ma non era abbastanza e così feci un’altra operazione il 17 settembre 2018.
Avevo partorito solo quattro anni prima! Come possono permettere che questo accada? È inaccettabile!

Cosa ti è stato detto a proposito?

Nel marzo-aprile 2015 presi un appuntamento per un confronto con l’ostetrica che mi fece partorire. Seppi che raramente faceva nascere bambini perché era specializzata in PMA, Procreazione Medicalmente Assistita, e che non era spesso di turno.
Durante il nostro incontro, le espressi la mia rabbia, le chiesi perché non avesse fatto un controllo quando aveva visto lo stato del mio perineo durante il parto. Lei rispose: “Pensa che ci divertiamo a guardare tutte le pazienti che facciamo partorire?”.
Io pago le conseguenze della sua mancanza di coscienza professionale.

Quali sono state le conseguenze per te dopo aver lasciato il reparto maternità?

Ci sono state conseguenze nella mia vita di donna: mio marito non ha potuto toccarmi per un anno e mezzo, non sopportavo nemmeno un abbraccio.
Ci sono state molte conseguenze anche nella mia vita professionale. Sono stata spesso in malattia e quando sono tornata al lavoro avevo (e ho ancora) problemi a gestire le complicazioni del mio apparato riproduttivo.
Ho avuto difficoltà pure con i miei figli che hanno venti mesi di differenza. Ho dovuto ripensare tutto: come coccolarli, come tenerli in braccio, come metterli sul fasciatoio. Mio marito era molto presente, per fortuna. Ha cercato di intraprendere un’azione legale, ma non ha ricevuto alcun sostegno.

Puoi dirci di più?

Dopo l’ostetrica incontrai il primario del reparto. Avevo chiesto a mio marito di farmi delle foto, da portare come prova. Quando ne prese una tra le mani, esclamò: “Ma questo, signora, in 15-20 minuti è fatto!”.
E dopo sentii frasi assurde, tipo: “Intato lei è diabetica, è normale che sia ridotta così, ha partorito un bambino molto grande” (Antoine pesava 3,860 kg alla nascita); infine fu colpa di mio marito: “Se si trova in questo stato è perché suo marito ce l’ha grosso!”. Ero sbalordita, pensavo fosse uno scherzo. Che umiliazione!
Decisi di presentare un reclamo e in seguito ricevetti il suo rapporto verbale di conciliazione, in cui mi definiva “obesa”, ma a quel tempo ero 1,65 m per 68 kg, compresi i kg della gravidanza ancora addosso. Tutto era stato fatto per ridicolizzarmi, per abbattermi.
La pratica è durata poco più di sei mesi.
Avevo inviato il mio fascicolo anche a un’associazione di sostegno alle vittime di violenza ostetrica a Parigi. O andavo al tribunale amministrativo dopo la conciliazione, o avrei dovuto lasciar perdere, ma non potevo permettermi assistenza legale, la ricostruzione della mia intimità occupava già una parte consistente delle mie risorse economiche. D’altra parte, il CRCI (la Commissione Regionale di Conciliazione e Indennizzo) chiuse la mia pratica senza alcuna azione perché non ero stata in malattia abbastanza a lungo. Scelsi di concentrarmi prima sulla mia salute e sulla mia famiglia, i professionisti coinvolti erano e sono molto ben protetti, ma ho dieci anni per fare appello. Ci vuole tanta energia per affrontare una situazione tale e porta con sé molta negatività. Cercherò di tornarci quando sarò abbastanza forte.

Di fronte alla macchina amministrativa, sei rimasta senza risposte fino a oggi. I tuoi familiari, invece, ti hanno aiutata?

Sì. Mio marito, che è meraviglioso, è stato un sostegno unico, la mia forza quotidiana; anche l’amore dei miei figli e il fatto che fossero in buona salute. I miei genitori (mia madre mi ha accompagnata alla conciliazione), mio fratello gemello, la mia famiglia, il mio migliore amico, tutti mi hanno confortata nel mio dolore: il dolore che sento, loro lo provano insieme a me.
Se fossi stata da sola, penso che mi sarei arresa molto tempo fa.

Qual è stato il ruolo del personale medico in questo percorso?

Ho espresso la mia rabbia diverse volte.
Quando chiesi perché non mi avessero fatto un’episiotomia per evitare la catastrofe, mi risposero che la cicatrice della precedente, fatta venti mesi prima, era troppo fresca.
Per quanto riguarda il cesareo, mi dissero che si trattava di una procedura effettuata solo in caso di emergenza.
Il proctologo aggiunse anche: “Da lì sotto non farete più passare nessuno!”, nel caso di un altro figlio, se ne vorrò un terzo, farebbero un cesareo cesareo, anche senza emergenza.
Insomma, tanta incoerenza nei discorsi, così è un attimo confondersi.

Avresti mai immaginato che potesse accadere tutto questo?

Assolutamente no! Nel momento in cui mio figlio non riusciva a uscire, pensavo a lui. Speravo che non ci sarebbero stati problemi per lui, che non avrebbe sofferto… ma non immaginavo affatto alle conseguenze che avrebbero riguardato me.
Voglio raccontare tutto questo perché altre madri possano essere informate. Abbiamo dei diritti, i miei non sono stati rispettati.

Un’ultima cosa, avrai dovuto “ricostruirti” anche da un punto di vista psicologico. Come ci sei riuscita?

Ho iniziato a vedere uno psicoterapeuta.
Parlare con gli altri, essere ascoltati, ricevere messaggi di sostegno, mi ha aiutata molto.


Dalla rivista e blog Grandir Autrement, articolo di Laura Boutevin

Traduzione di Federica Dibenedetto
Revisione di Francesca Pamina Ros

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