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Bullismo o litigio? Come comportarsi

Litigare tra compagni, litigare tra fratelli, litigare tra colleghi. Chi di noi può dirsi immune dai conflitti? La rabbia è un sentimento che accomuna tutti gli esseri umani, ma quando è giusto preoccuparsi se la sua espressione sfocia in atteggiamenti dannosi?
Con la pedagogista Giuditta Mastrototaro analizziamo le differenze tra atti di violenza e “semplici” litigate tra coetanei e scopriamo come prevenirli e intervenire nel primo caso.

Violenza o litigio?

Chi è il bullo? Cos’è il bullismo? Chi litiga è un bullo o un violento? Ne sentiamo parlare spesso. Ogni volta che giudichiamo, ci allontaniamo dall’umanità delle persone perché emettiamo dei giudizi di valore che alla fine possono essere riassunti in due essenziali categorie: i buoni e i cattivi. Per non cadere in queste etichette vale la pena approfondire la distinzione tra che cosa distingue un litigio da atti di violenza.
Si usa la violenza quando si conosce un’unica soluzione per risolvere un problema relazionale: annientare l’altro fisicamente o psicologicamente attraverso atti intenzionali che provocano danni importanti. Il litigio invece esprime un conflitto in cui ogni contendente desidera che la propria soluzione sia accettata dall’altro.
La persona che usa la violenza per soddisfare i propri bisogni fa fatica a distinguere la persona che ha davanti dal problema, non riesce a esprimere attraverso la comunicazione i suoi vissuti emotivi perché egli stesso non è in grado di riconoscerli e gestirli. È stato tra l’altro dimostrato da numerosi studi che deficit nelle abilità relazionali possono portare a sviluppare psicopatie.

Le differenze tra bambini e ragazzi

Nei bambini il riconoscimento e la regolazione delle proprie emozioni sono in evoluzione, per cui tanto più un bambino è piccolo, tanto più è facile che usi la forza per ottenere un gioco o delle attenzioni, ma certamente non ha intenzione di fare del male o provocare un danno all’altro.
Inoltre, secondo lo sviluppo mentale di Jean Piaget, fino a 7 anni il bambino si trova nello stadio pre-operatorio, e per questo non ha la capacità di elaborare un piano articolato e intenzionale in grado di generare azioni vendicative o che siano finalizzate a provocare un danno reiterato nel tempo. In realtà, un bambino sotto i 7 anni ha un pensiero magico e autocentrato quindi è alquanto illogico definirlo un bullo.
Ciò che può succedere ai ragazzi più grandi, invece, è che le azioni violente siano il tragico tentativo di essere visti e considerati o di percepire la vita reale come un mondo virtuale, senza quindi rendersi pienamente conto delle conseguenze.
Gli effetti di queste azioni saranno dolorosi per tutti i soggetti che in qualche modo partecipano alla violenza.

Il bullismo

Chi compie un’azione ai danni di un altro in modo intenzionale e reiterato nel tempo è chiamato bullo, soprattutto se è sostenuto da un gruppo di compagni che avvalla o non interviene di fronte a questi atti.
Gli attori del bullismo sono almeno tre:

  • il bullo, che svilupperà nel tempo una grave forma di insensibilità per i suoi sentimenti e quelli dell’altro
  • la vittima, che si metterà nella condizione di provare una profonda solitudine e impotenza
  • il pubblico spettatore, che sarà esposto ad atti diseducativi

Per un genitore venire a sapere che il proprio figlio è vittima di bullismo è piuttosto angosciante e spesso si è presi dalla rabbia e dal desiderio di intervenire per mettere a posto le cose. In realtà, non c’è niente di più umiliante per un ragazzo che sentire di non farcela da solo, tanto da chiedere aiuto a mamma o papà. Proprio in una fase della vita in cui ci si vuole sentire capaci e autonomi, avere ancora bisogno di protezione può essere frustrante, e per questa ragione spesso i ragazzi tendono a non parlarne.

Cosa fare?

Allora cosa possono fare i genitori, gli educatori e gli insegnanti quando si accorgono che c’è qualcosa che non va nella relazione dei ragazzi con i coetanei?

  1. Osservare la situazione sospendendo ogni giudizio.
  2. Non minimizzare. Si corre il rischio di non cogliere il vissuto dei ragazzi.
  3. Fare da specchio e rendere consapevoli delle ragioni e dei sentimenti che vengono espressi. Quanto più noi adulti interveniamo con giudizi e critiche, tanto più mostriamo sfiducia nelle loro capacità di riuscire a farcela da soli.
  4. Mostrare empatia e ascoltare. Come genitori o insegnanti siamo chiamati a rendere consapevoli i nostri figli o i nostri alunni dei loro sentimenti e bisogni. Ogni conflitto può essere un’occasione di apprendimento per conoscere meglio se stessi e gli altri.
  5. Essere attenti quando alcune situazioni sembrano sospette. Non affrontiamo i ragazzi singolarmente, ma con l’intero gruppo in cui si giocano queste relazioni, perché la responsabilità non può essere circoscritta ai due contendenti: si è verificata nel gruppo spettatore e si risolverà nello stesso gruppo, in modo che siano stimolate le risorse educative funzionali invece che avvallare relazioni sbilanciate e disfunzionali. Occorre spezzare il muro del silenzio e del non detto, comunicando il più possibile con trasparenza e onestà.
  6. Prendere sul serio la fatica di stare nel conflitto da parte non solo dei ragazzi ma anche di noi adulti. Partecipare a training di alfabetizzazione emotiva. Se ci ascoltiamo, possiamo anche decidere che abbiamo bisogno di supporto e di coesione con gli altri genitori o educatori per affrontare con più competenza queste situazioni.
  7. Raccogliere informazioni per capire se ci sono altri ragazzi che vivono lo stesso problema. Invitare i ragazzi a tenere un diario di classe perché sia un valido strumento di consapevolezza.
  8. Prevenire e intervenire al più presto affrontandolo come problema all’interno della scuola e non come situazione singola. Occorre passare dal concetto: “quel ragazzo ha un problema” a “la nostra scuola ha un problema”.
  9. Formare e informare gli adulti e i ragazzi sulla gestione dei conflitti per comprendere la differenza tra litigio e violenza. Esistono molte iniziative volte alla prevenzione del bullismo e del cyberbulismo.
  10. Essere coerenti esempi di rispetto. Se crediamo davvero che accogliere le divergenze e i diversi punti di vista sia fonte di ricchezza, allora noi adulti possiamo essere i primi esempi di democrazia e di rispetto. Si possono trovare molti modi per rispondere ai bisogni di tutti senza pretendere che le nostre ragioni scavalchino quelle degli altri. Possiamo anche scegliere di implementare le nostre competenze partecipando a seminari sulla gestione dei conflitti.
  11. Allenare l’empatia. È possibile svolgere in classe lezioni partecipate, dove ognuno è chiamato a dare un nome alle emozioni e a cooperare nel prendere in carico il problema di qualcuno e farlo diventare il problema di tutti.

Il problema va affrontato a livello istituzionale, scolastico, familiare e in sinergia con gli stessi ragazzi perché si possano sviluppare strumenti efficaci di ascolto, fiducia e gestione dei conflitti. L’empatia è una preziosa competenza per creare relazioni sane.


di Giuditta Mastrototaro
Pedagogista ed esperta nelle relazioni educative, curatrice del sito Pedagogia basata sull’empatia.


Bibliografia 
A. Fonzia, Il gioco crudele. Studi e ricerche sui correlati psicologici del bullismo, Giunti, 1999
D. Goleman, Intelligenza emotiva, Bur, 1997
T. Gordon, Genitori efficaci. Educare figli responsabili, La meridiana, 1997
G. Mastrototaro, Nascere e crescere alla luce dell’educazione empatica, StreetLib, 2013
D. Novara D, Litigare fa bene, Bur, 2013

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