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Bambini iperattivi, disturbo mentale o meccanismo di sopravvivenza?

bambini-iperattiviIl problema dei bambini iperattivi, che oggi etichettiamo come problema comportamentale, potrebbe essere una caratteristica antica utile alla sopravvivenza di generazioni e generazioni di bambini.
…Perchè tanti bambini sono terrorizzati dai ragni, dai serpenti, dal buio, dagli spazi aperti, da quelli chiusi e, nella prima infanzia, dagli estranei e dal distacco improvviso dai genitori? Non sarebbe più logico aver paura delle pistole, delle automobili, dei grassi saturi e delle sigarette, vere fonti moderne di potenziali pericoli mortali? Gli psicologi evolutivi direbbero che si tratta di paure innate dal grande valore adattativo in ambienti ancestrali.

 

Il dottor Robin Fox, meglio conosciuto per aver fondato il dipartimento di antropologia alla Rutgers University, ha scritto molto sul fatto che la costituzione biosociale dell’uomo sia disegnata per rispondere al meglio in condizioni di vita tipiche dei cacciatori-raccoglitori, quelle stesse che hanno accompagnato l’uomo per oltre il 95% della sua storia.

 

Non siamo certo vissuti tutto quel tempo in un contesto di vita cittadina contemporanea, pieno di automobili, affollato, rumoroso e illuminato artificialmente. In realtà, più d’una delle caratteristiche umane classificate oggi come disturbi psichiatrici ha aiutato la nostra specie a sopravvivere e ad affrontare le sfide.

 

Prendiamo l’ADHD (deficit di attenzione e iperattività). Thom Hartmann, il conduttore radiofonico, fece scalpore qualche anno fa con la sua teoria della contrapposizione fra cacciatori e agricoltori a proposito del noto disturbo. In sostanza, propose che i tratti tipici del deficit di attenzione, come la facile distraibilità, l’impulsività e l’aggressività, favorissero la sopravvivenza degli esseri umani nel periodo precedente allo sviluppo dell’agricoltura.

 

I cacciatori-raccoglitori – spiegò – pensano per immagini (pensiero visivo); “quando vedono un baluginìo nell’oscurità o notano con la coda dell’occhio qualcosa che si muove, è probabile che si tratti di un predatore o di cibo.” L’irrequietezza, il controllo visivo periferico costante, l’eccitabilità che porta ad aggressioni rapide, sono non a caso tutti attributi dei bravi cacciatori.

 

Se il Ritalin fosse esistito 150.000 anni fa e fosse stato preso in dosi massicce, la nostra sopravvivenza come specie avrebbe potuto essere messa in discussione.

 

Tratti caratteriali come la pazienza e una passione per l’organizzazione e la pianificazione sono più consoni agli agricoltori. I bambini con deficit di attenzione, concludeva Hartmann, hanno antenati che abbondavano in tratti tipici degli abili cacciatori. Di conseguenza, i bambini con ADHD non hanno alcun disturbo mentale; la Natura li ha solo dotati di quelle caratteristiche che fecero dei loro antenati degli abili cacciatori, rendendoli non proprio adatti a stare seduti per lunghe ore in una classe a insegnamento frontale.

 

L’idea che il deficit d’attenzione e iperattività produca cacciatori migliori è sostenuta dalla genetica. In Kenya qualche anno fa, Dan Eisenberg, un laureando in antropologia della Northwestern University, entrò nelle grazie di diverse tribù Ariaal, sia nomadi, sia divenute da poco stanziali. Effettuando dei prelievi di sangue, Eisenberg scoprì che i membri della tribù con il gene DRD4, associato all’ADHD, erano meglio nutriti nella popolazione nomade; tuttavia lo erano meno in quella stanziale. Se ne può dedurre che in condizioni di nomadismo, avere i tratti dell’ADHD offre una marcia in più se si tratta di cacciare e andare in cerca di cibo, ma rappresenta un ostacolo se bisogna fermarsi e arare la terra.

 

È dunque possibile che le caratteristiche dei bambini con ADHD li rendano cacciatori efficienti, tuttavia le classi moderne non sono di certo la savana africana.

 

Qual è la soluzione?

 

Come minimo, direi che in alcuni momenti della giornata tutti i bambini più piccoli, e in particolare quelli con i tratti dell’ADHD, abbiano bisogno di stare all’aperto in ampi spazi verdi e di scorazzare liberamente. Non si tratta di un’affermazione romantica. I professori Andrea Faber Taylor, Frances Kuo e William C. Sullivan, del laboratorio di ricerca ambientale sull’uomo dell’Uinversità dell’Illinois, hanno dimostrato che i bambini con ADHD riescono ad aumentare il livello di attenzione e di concentrazione dopo aver avuto la possibilità di giocare e scorazzare all’aria aperta e in spazi verdi (“Coping with ADD: The Surprising Connection to Green Play Settings”, studio pubblicato sulla rivista Environment and Behavior 33 (2001).

 

Non dovrebbe sorprenderci il fatto che il nostro piccolo “cacciatore-raccoglitore”, se lasciato a giocare su un verde pendio, prediligerà quei giochi che richiedono di acchiappare e di essere acchiappato, di darsi la caccia, di essere bravi a sfuggire alla cattura e a catturare.

 

Anche l’ansia è uno di quei tratti che hanno offerto e continuano a offrire un appiglio alle capacità di adattamento. Fino a prova contraria, la natura potrebbe averci resi ansiosi senza ragione, facendoci vedere pericoli anche dove non esistono, anziché fornirci uno strumento di qualche utilità. È facile dimenticare quanto, nel corso della storia, le perdite catastrofiche dovute alle malattie, alle guerre, alla fame, agli eventi climatici o ai predatori facessero parte della vita. Ancora nel Medioevo, una donna su cinque moriva di parto e i tassi della mortalità infantile nel primo anno di vita erano circa gli stessi. La peste bubbonica del quattordicesimo secolo spazzò via qualcosa come settantacinque milioni di persone, più o meno. L’epidemia di influenza del 1918-19 uccise più della prima guerra mondiale, dai venti ai quaranta milioni di persone. L’aspettativa media di vita fino agli inizi del ventesimo secolo si aggirava attorno ai quarant’anni. Nella Grecia e nella Roma classiche era una fortuna vivere fino ai trenta.

 

Preoccuparsi e anticipare il peggio lo rendeva meno doloroso nelle situazioni in cui era più alta la probabilità che accadesse. Oggi, il nostro cervello conserva ancora questo meccanismo protettivo di anticipazione del pericolo, nonostante la probabilità che si verifichi un evento catastrofico sia assai minore.

 

Per i bambini, la salute psichica e il benessere non implicano uno stato mentale libero dall’ansia. In passato, un bambino poco ansioso poteva correre seri pericoli. Meglio pensare che un rametto mosso dal vento fosse un ragno velenoso e fuggire, anziché soffermarsi pigramente durante un evento poco piacevole e rischiare di venir pizzicato e morire. Essere pronti al pericolo, con la psiche e con il corpo, è sempre meglio che farsi cogliere impreparati. Un certo stato ansioso esiste in tutti i bambini, e in alcuni più che in altri. Se guardiamo all’ansia in questi termini, come un tratto inscritto nel nostro genoma, ci sarà più facile comprendere e avere pazienza quando i bambini temono che qualcosa sia in agguato nel buio, che qualche pericolo segua alla percezione di strane sensazioni fisiche. Capiremo quanto li possa sconvolgere la lontananza dalla presenza protettiva di coloro che amano in momenti che percepiscono come pericolosi, o quanto li agiti anche solo l’idea di creature striscianti.

 

Anziché parlare di disturbi mentali nei bambini, come se in loro ci fosse una qualche entità malata, è sempre necessario tenere in considerazione come le situazioni ambientali che incontrano li possano mettere a disagio. Le pratiche educativo-scolastiche e gli stili di vita familiari che stressano i bambini mettendoli in situazioni nelle quali non si sentono sicuri, non sono a proprio agio e che superano di molto la loro capacità di padroneggiarle, possono trasformare tratti tipici dell’uomo e comportamenti normali, facendoli apparire problematici.

 

A volte, anche piccoli cambiamenti nell’ambiente del bambino possono avere notevoli conseguenze. Tendiamo a perdere di vista quanto i bambini in generale siano sensibili all’ambiente, soprattutto i più piccoli. Nel corso degli anni, durante la mia pratica professionale, mi è capitato spessissimo di vedere come si trasformasse un bambino ansioso o con ADHD in seguito a cambiamenti apparentemente del tutto ordinari nel suo contesto di vita: genitori che si impegnavano a rendere più prevedibile la propria presenza e disponibilità, il cambio di una maestra, una scuola diversa, l’inizio di uno sport, un carico di compiti ridotto, un’estate trascorsa all’estero, lo spostarsi a sedere ai primi banchi, un mese trascorso a vivere con una zia dal temperamento simile, e mille altri piccoli passi quotidiani.

 

Una prospettiva evolutiva sui “problemi di comportamento” dei bambini dovrebbe, in modo anche simpatico, alleggerire il senso di colpa di quei genitori che credono di essere i soli a doversi biasimare per le difficoltà dei figli. Esistono sempre cause molto antiche e scritte nel genoma umano per i tratti ansiosi o tipici dei profili con ADHD. Dobbiamo biasimare i nostri antenati, o forse riconoscergliene il merito!

 

Definire i tratti ansiosi o quelli tipici del deficit di attenzione una forma di malattia è molto poco rispettoso nei riguardi dei nostri antichi avi che nel corso dei millenni se la sono cavata sempre meglio affinando i comportamenti tipici dell’ADHD per abbattere grosse prede, anticipare il pericolo con la giusta dose di ansia, e fare in modo che chi venisse dopo avesse più di una qualche probabilità di sopravvivenza.

 

Con questa profonda prospettiva storica riesco a sorridere rilassato quando i genitori entrano nel mio studio e dicono: “Credo che il mio modo di essere genitore abbia nuociuto a mio figlio”.

 

Traduzione dall’inglese di Michela Orazzini

tratto da un articolo dello psicologo californiano Enrico Gnaulati

 

 

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