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Violenza educativa: un vero paradosso
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L’idea che il ricorso alla forza fisica e alla punizioni corporali rappresenti un mezzo per “educare” un soggetto debole, sottoposto all’autorità di un adulto, è un equivoco che affonda le radici in tempi tanto remoti che, oggi, non dovrebbe restarne se non una vaga memoria. E invece, quello della c.d. “violenza educativa” è un tema tanto delicato quanto, purtroppo, ancora tristemente attuale e non affrancato nel nostro costume e persino nelle nostre fonti normative: l’uso della violenza c.d. modica, continua ad essere, nel nostro Paese giustificato, tollerato e legittimato, a condizione che non trasmodi in condotte eccessivamente lesive.

L’origine di questo paradosso educativo nasce dall’idea che i figli ci appartengano, che siano una nostra proprietà e rispetto ai quali vantiamo il diritto persino di fare del male, nella convinzione, altrettanto equivoca, che infliggere un po’ di dolore e di privazione sia utile per far crescere adulti forti e migliori.

Nell’antica Roma, il pater familias aveva così tanto potere sui figli da spingersi fino a poterne decretare la morte: lo “ius vitae ac necis” rappresentava l’incondizionato potere del padre di mandare a morte un figlio, non solo in presenza di crimini da questi commessi, ma anche solo di comportamenti ritenuti immorali o contrari al costume del tempo. Il termine di potestà, che evoca in sé l’idea del potere dell’adulto sul fanciullo e che riduce il bambino ad oggetto di potere, ce lo siamo tramandati sino alla legge n.219/2012, meglio nota per aver parificato gli stati di filiazione; ebbene, oggi i genitori non sono più titolari, per lo meno formalmente, di una potestà sui figli ma di una responsabilità, che si coniuga con l’adempimento dei principali doveri di “cura, di educazione e di assistenza”.

Ma siamo sicuri che sia sufficiente cambiare nome alle cose per provocare un cambiamento apprezzabile nella cultura, nella mentalità e nel comune sentire? Non ne sarei così certa, perché l’esperienza ci mette continuamente di fronte ad evidenze molto diverse: continuiamo ad essere schiavi di una concezione che considera il rapporto genitori – figli non come relazione alla pari – sotto il profilo della dignità umana, si intende, e non del ruolo – bensì come relazione gerarchica, che si fonda sull’autorità dei primi sui secondi. Badate che, quando parlo di relazione alle pari non inneggio alla diffusa “moda” di trattare i figli come “amici di avventura”, dico, piuttosto, che i bambini non possono mai essere considerati oggetto di un potere e di autorità quanto, semmai, persone piene, meritevoli di rispetto, di trattamenti amorevoli e umanizzati e, soprattutto, della massima cura: e nella violenza non può esserci amore, né cura, né rispetto, né umanità. La violenza è l’antitesi dell’educazione e del rispetto, sempre e qualunque sia la forza o il motivo che induce a perpetrarla. In questa materia il mezzo non giustifica e non può mai giustificare il fine: è una bestialità pedagogia pensare che l’uso della violenza sia giustificato dal fine di educare un bambino.

Un’indagine statistica condotta da Save The Chlidren nel 2012, rivela dati allarmanti: un quarto degli italiani (il 27%) ha dichiarato di ricorrere più o meno frequentemente allo schiaffo c.d. educativo con i propri figli e un altro quarto ritiene che sia un metodo educativo efficace; il 57% dei genitori ritiene che dare uno schiaffo ogni tanto non abbia conseguenze negative sullo sviluppo del bambino e, di questi, il 26% è addirittura convinto che abbia un effetto benefico per rendere i figli ben educati. Ma allora, se “educare” – dal latino “e-ducere” – significa “portare fuori, far venir fuori”, le potenzialità e le infinite risorse che il bambino ha innate in lui, come possiamo pensare di riuscire a tirar fuori il meglio usando – e non importa quanto solo sporadicamente – schiaffi, sculacciate, tirate di orecchie o di capelli, strattonamenti e punizioni irrispettose della dignità del bambino? E guardate che, benchè 34 Paesi nel mondo, dei quali 22 Europei, abbiano già vietato espressamente qualunque forma di violenza domestica, comprese ovviamente le punizioni corporali, in Italia abbiamo tutt’oggi norme che vietano categoricamente l’uso della forza in ambito scolastico ma non nel contesto domestico, che dovrebbe essere l’ambiente in assoluto più protetto, perché è quello dove il bambino nasce, cresce e si sviluppa.

È un paradosso questo, o non ci sentiamo ancora pronti a sostenerlo?

Vedete, nessuno oggi pensa che il marito o il convivente abbia il diritto di schiaffeggiare la moglie se questa si comporta male o non ubbidisce; meno che mai saremmo pronti ad accettare che il datore di lavoro possa usare metodi forti, anche solo a parole, contro un suo sottoposto; nella Scuola dilagano le campagne per prevedere l’installazione di telecamere, perché nessuno si sognerebbe di ritenere ammissibili l’uso di metodi c.d. educativi fondati sull’uso della violenza, anche se di modico valore; nelle Case di Cura per anziani idem, nessuno pensa che sia giusto infierire sui malati, sugli anziani anzi, la sensibilità ci fa dire che, usare violenza contro un essere più debole, approfittando del suo stato, rende la violenza ancor più grave e meritevole di pene più severe. Ma allora, se condividiamo tutti che sia giusto astenersi dal prendere a schiaffi una moglie, un garzone, un imputato, un alunno, perché mai siamo ancora pronti a giustificare che sia lecito, nel ruolo di genitore, ricorrere alla violenza fisica quando il bambino non ci ascolta o non fa esattamente quello che gli chiediamo?

È la stessa legge, d’altro canto, a giustificare e a tollerare ancora le pratiche educative degradanti della personalità del minore, nella misura in cui, l’art. 571 cp, il cui titolo già la dice lunga – “abuso dei mezzi di correzione e di disciplina” – non punisce chi usa la violenza a scopo educativo ma solo chi ne abusa, ovvero chi eccede nell’uso, trasmodando nella condotta.

Non crediamo a quelli che dicono che lo schiaffo o la sculacciata, se inflitta per correggere e non per fare del male, è utile o addirittura necessaria, perché una azione malvagia resta sempre tale, a prescindere da quale che sia lo scopo ed è un’illusione pericolosa credere di poter cambiare il mondo, se non siamo pronti a cambiare prima nel nostro quotidiano.

Avv. Paola Carrera (Avvocato civilista in Torino)

Commenti (2)

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