Se vogliamo comprendere e riassumere il concetto di attaccamento dobbiamo guardare alla matrice di tutti i tipi di attaccamento e cioè alla relazione.
Relazione implica prima un incontro e un conseguente scambio reciprocamente orientato. Guardando al bambino e al suo sviluppo, le relazioni precoci forniscono il contesto entro cui si acquisiscono e si sviluppano alcune funzioni psicologiche critiche. I pattern di interazioni precoci tra il bambino e le figure significative che abitano l’ambiente del bambino si tramutano in stili individuali di regolazione degli affetti che, a loro volta, determinano dei modelli di interazione.
Verso la metà del ventesimo secolo John Bowlby, psicoanalista e psichiatra britannico, per approfondire le interpretazioni analitiche tradizionali sullo sviluppo infantile, ha rivolto la sua attenzione agli studi del comportamento animale (esperimento Harlow 1958). La teoria psicoanalitica sosteneva che la relazione tra il bambino e la madre si forgiasse per soddisfacimento della pulsione della fame. Il piacere prodotto veniva poi associato dal bambino alla presenza della madre. Bowlby invece, a seguito di numerose osservazioni e ricerche, arrivò a concludere che il legame straordinariamente forte tra mamma e bambino era determinato da un desiderio di vicinanza a base biologica emerso nei processi di selezione naturale (Bowlby 1988). Il suo lavoro si basa su un principio relativamente semplice: il bambino, durante le sue ripetute interazioni con le figure di riferimento, interiorizza la relazione con il genitore o con altre figure significative in un modello operativo di attaccamento, cioè in una rete che può essere paragonata ad una “storia” di “costanze e incostanze” comportamentali genitoriali, in termini di disponibilità, accessibilità e prontezza verso le richieste di sicurezza del bambino. Se a questo modello di “media storica” corrisponde un senso di sicurezza, il bambino sarà in grado di esplorare il mondo, di maturare e di separarsi dal genitore in maniera sana; se la relazione di attaccamento è “insicura”, il modello interno di attaccamento che ne deriva non fornirà al bambino una base sicura e potrà avere effetti negativi sullo sviluppo dei suoi comportamenti e delle sue cognizioni.
La teoria dell’attaccamento rappresenta il quadro concettuale empiricamente fondato più significativo nel campo sociale ed affettivo. Seguendo questa prospettiva ci si accorge di come il bisogno di relazione diventi bisogno primario, fondamentale per ogni essere umano: non più un mezzo riservato e volto al raggiungimento di altri scopi ma la relazione diventa essa stessa il fine.
Abbiamo bisogno di relazione perché solo dentro uno spazio di relazione possiamo sviluppare un senso identitario stabile e coeso.
Sin dalle fasi precoci di vita il neonato ha bisogno dell’altro per definire la propria realtà. Attraverso il pianto esprime una molteplicità di emozioni e bisogni ed è necessario l’intervento dell’adulto per modulare le richieste e rispondere ad esse. È l’adulto attraverso la preziosa relazione fatta di prossimità, contatto e piacere che inizia ad ordinare il suo mondo e restituirgli un senso condiviso. Sarà proprio questa osmosi emotiva che definirà il legame che genererà un tipo di attaccamento più o meno sicuro intorno ai sette-nove mesi di vita. Il comportamento delle figure genitoriali nei suoi confronti costituisce per il bambino la matrice dalla quale egli comincia a percepire e ad estrarre delle invarianti relative al proprio senso di sé. Così come impariamo a riconoscere noi stessi in uno specchio, il bambino diventa consapevole di se stesso vedendo il suo riflesso nello specchio costituito dalla coscienza che le altre persone hanno di lui (Popper 1972).
L’attaccamento si basa su meccanismi cerebrali innati, che spingono il bambino a cercare la vicinanza con i genitori (o delle persone che si prendono cura di lui) e stabilire una comunicazione con loro, instaurando rapporti che influenzano lo sviluppo e l’organizzazione dei suoi processi motivazionali, emotivi e cognitivi. Da un punto di vista strettamente evolutivo questo sistema comportamentale aumenta le probabilità di sopravvivenza del bambino (Main 199). A livello cognitivo le relazioni di attaccamento aiutano il suo cervello ancora immaturo a coordinare le sue attività attraverso i processi cerebrali del genitore. Numerosi studi condotti in questo campo hanno dimostrato che ai diversi tipi di relazioni di attaccamento che si stabiliscono durante l’infanzia corrisponde lo sviluppo di caratteristiche specifiche in termini di regolazione delle emozioni, capacità sociali, memoria autobiografica, auto riflessione e processi narrativi (Main 2005).
Il comportamento di attaccamento manifestato dal piccolo ha l’esito predicibile di aumentare la vicinanza con la propria figura di riferimento affinché venga protetto da pericoli reali o percepiti. Alcuni comportamenti di attaccamento, come sorridere e vocalizzare, sono comportamenti di segnalazione che dirigono l’attenzione dalla madre verso il bambino, così da avvicinarla ad esso. Altri comportamenti sono avversivi come il pianto e hanno come fine l’avvicinamento e il raggiungimento della prossimità fisica per riparare il disagio: mancanza di cibo, variazioni termiche sfavorevoli, incidenti, separazioni, attacchi. Per questo motivo i meccanismi dell’attaccamento sono estremamente sensibili alle indicazioni di pericolo; l’esperienza soggettiva interna che si accompagna alla loro attivazione è quindi spesso associata a sensazioni di paura o ansietà, scatenate da avvenimenti che spaventano il bambino o dal timore di venire separato dalla figura di attaccamento (Main, Hesse, Kaplan, 2005). Oltre a svolgere un ruolo cruciale nell’aiutare il bambino a organizzare le sue esperienze, le relazioni di attaccamento hanno effetti diretti sulla maturazione delle strutture cerebrali che mediano processi come memoria, emozioni, rappresentazioni e stati della mente: le relazioni di attaccamento contribuiscono alla costruzione delle basi su cui poi si sviluppa la nostra mente.
Ricercare la “sicurezza” all’interno della relazione mamma-bambino diventa pertanto un obiettivo prioritario. Il neonato nelle primissime fasi di vita e almeno fino a tre mesi è un bambino nel quale non si possono attribuire strategie sorrette da emozioni strutturate, (emozioni invece compaiono tra il sesto e settimo mese) è un bambino che grazie alla mamma si autoregola continuamente, che si mantiene reattivo anche a dispetto dei numerosi fallimenti nella sintonizzazione. La mamma in questa fase interpreta il pianto del bambino attribuendo ad esso vari bisogni, mettendo in atto in questo modo una regolazione fisiologica che può essere considerata il prototipo della successiva regolazione psicologica. È in questa fase che il bambino inizierà a estrapolare dalla relazione delle invarianti comportamentali in forme sensoriali atte a porre le basi per lo strutturarsi del legame di attaccamento.
In questa fase la mamma dovrebbe sviluppare una buona competenza percettiva. Percepire e mantenere nel campo della propria consapevolezza i segnali e le comunicazioni implicite del bambino è alla base di ciò che viene definito sensibilità materna (Lambruschi 2015). Questa capacità si traduce in una disposizione materna ad essere accessibile alla comunicazione implicita del bambino, traducendo attraverso l’apparato percettivo materno i segnali dello stesso in un processo di condivisione empatica. “La sintonizzazione con le emozioni avviene quando la mamma mette in atto un qualche comportamento comunicativo che esprime la qualità di uno stato affettivo che ha esperito il bambino… Cioè rispondere usando qualsiasi canale sensoriale, riflettendo la misura e la forma dell’affetto vitale esperito dal bambino” (Stern 1985).
Un’adeguata sintonizzazione con le emozioni del bambino lo aiuta a riconoscere i propri stati interiori. Il bambino inizia ad apprendere in questo modo che tutti i suoi stati possono essere comunicati, che sono legittimi e che si possono condividere all’interno della relazione e sopratutto che la relazione è forte e non viene compromessa dai suoi stati seppur negativi. Questo tacito messaggio tra mamma e bambino è un potente vaccino per la relazione stessa che regala alla diade i fondamenti per la sicurezza. Al contrario se si assiste ad un mancato riconoscimento emotivo, questo può impedire lo sviluppo di un’adeguata espressione dei propri stati interni che, non comprese dal bambino stesso, rimarranno indefinite poiché percepite pericolose per la sicurezza della relazione. Lo stesso Bowlby sosteneva che se un bisogno “necessario” per un dato periodo della vita non viene soddisfatto, l’ essere umano resta in attesa trascinandosi la carenza nella vita adulta. Mary Ainswort (1974), nota studiosa di teoria dell’Attaccamento osservò che la prossimità e il contatto con il proprio cucciolo potenziava la sensibilità materna. La mamma risultava più esperta e accurata nel riconoscere e discriminare i segnali del bambino interpretandoli al meglio. Questo aspetto risulta essere predittivo di un buon attaccamento, costituisce un grosso rinforzo per l’autostima e accresce le competenze genitoriali.
A oggi sono noti i benefici della prossimità fisica, del contatto e del “pelle a pelle” con il proprio bambino immediatamente dopo il parto e come buona pratica per il consolidarsi della relazione. Una buona immunità emotiva è il risultato dell’esperienza di sentirsi sicuri, del contatto fisico, dell’essere visti e aiutati a riprendersi dallo stress.
Potremmo parafrasare sostenendo che alla base della sicurezza, dentro una diade mamma bambino, vi è contatto, una risposta comportamentale sintonica e contingente alla richiesta. Saranno questi i presupposti necessari a regalare al piccolo quella “fiducia nella bontà del mondo” che garantirà allo stesso la costruzione di relazioni future stabili e sicure.
di Francesca Mandis
Psicologa e psicoterapeuta a indirizzo cognitivo costruttivista ed evolutivo e insegnante nella scuola dell’infanzia.