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Fatica, impegno e apprendimento di qualità

«Gli homeschooler non fanno nessuna fatica: non vanno a scuola, non hanno orari da rispettare, né compiti o verifiche. Non danno neanche un esame, allora non fanno proprio nessuno sforzo! Non è giusto!» Tanti la pensano così.
Questo tipo di ragionamento sta anche alla base di alcune critiche che vengono mosse alle famiglie homeschooler, di volersi sottrarre all’impegno o al confronto, di voler tenere i figli sotto una campana di vetro, al riparo dalle sfide che il confronto con il sistema scuola comporta.

La sovrapposizione di apprendimento e sacrificio è un retaggio culturale vecchio di parecchi secoli e derivante da una visione del mondo e della vita proiettata verso una piena realizzazione dell’esistenza solo in un futuro più o meno lontano, in cui il momento presente è vissuto in funzione del premio che verrà.
Da cui deriva l’associazione fra la crescita personale, sociale e culturale da un lato e l’imposizione, l’abnegazione, la sofferenza e il dovere dall’altro.
In epoche in cui le neuroscienze non avevano ancora rivelato molti dei segreti del funzionamento dei processi celebrali dell’apprendimento, tale idea veniva accettata senza riserve: i padri tiravano su i figli secondo gli esempi che avevano a loro volta ereditato dai loro genitori, interiorizzato e fatto propri. In questo modo la prassi educativa si tramandava di generazione in generazione secondo modelli empirici reiterati in modo acritico.

Oggi sappiamo che l’apprendimento è un processo gratificante che sgorga spontaneo in un ambiente sereno e produce gioia: si impara per soddisfare un prepotente bisogno innato di sapere.

L’acquisizione di conoscenze scaturisce d’istinto quando il bambino o il ragazzo si trova a vivere in un contesto rassicurante, libero e scevro dal giudizio. Allora si genera una sensazione di piacere che, a sua volta, spinge a proseguire nell’esplorazione e nella conoscenza.
 Al contrario, la fatica, lo stress, il sacrificio minano l’apprendimento: le sensazioni frustranti che essi producono fanno nascere il rifiuto dello studio. Sono quindi controproducenti.

Perché continuare a valutare l’apprendimento sulla base dell’impegno profuso, della fatica, delle rinunce, quando si sa che questa modalità non è quella più sostenibile in termini di efficienza e di rapporto fra energie impiegate e risultati?

Quando in gioco c’è la formazione di giovani persone, il loro sviluppo socio-psicologico e culturale, il dispiegamento dei loro talenti innati e la formazione di una società più umana, la rimozione di tutti gli ostacoli a questi processi è un dovere del mondo adulto, dei genitori e dello Stato.

Imparare con gioia non è troppo comodo, è biologicamente corretto, etico oltre che doveroso. 
Oggi che la scienza ci ha dato gli strumenti per conoscere più da vicino il nostro cervello, abbiamo una grossa responsabilità: non possiamo più continuare come prima, dobbiamo porci delle domande e operare delle scelte coerenti.

L’apprendimento naturale, autoguidato, è un apprendimento di alta qualità, proprio perché si alimenta del piacere. La sua sintonia con le leggi della biologia gli permette di lasciare un segno profondo e persistente nel tempo.

L’elevato grado di performance dell’istruzione famigliare è confermato, tra l’altro, anche dagli studi sull’homeschooling in Nord America.
 Numerosi studiosi di fama internazionale sono giunti a teorizzare l’efficacia di questa modalità di apprendimento.
Nell’ambito della didattica delle lingue, ad esempio, in questi anni Stephen D. Krashen ha postulato la distinzione fra un processo naturale, inconsapevole e intuitivo (che lui ha chiamato acquisizione) e un processo consapevole e razionale.
Il primo, l’acquisizione informale e non strutturata, corrispondente grossomodo all’unschooling, porta a interiorizzare le conoscenze in modo stabile e duraturo, sviluppando la capacità di riutilizzo creativo delle competenze acquisite. Viceversa, l’apprendimento formalizzato, sul modello scolastico, può portare a conoscenze, sì piuttosto precise, ma decisamente effimere, instabili e che non si prestano a un impiego in autonomia.

Se i bambini o i ragazzi homeschooler non sono soggetti a imposizioni, sanzioni e giudizi e quindi non fanno fatica, non per questo fanno meno lavoro: sono fanciulli in apprendimento permanente, costantemente aperti alla scoperta del mondo e della società intorno a loro, animati da un interesse insaziabile.
L’educatore – e chi effettua i monitoraggi degli apprendimenti – non dovrebbe essere mosso dalla preoccupazione di caricare i giovani di compiti, di imposizioni e di sacrifici, ma dovrebbe essere motivato dalla doverosa centralità dell’apprendente, dalla sua gratificazione, dalla sua carica di curiosità, e, ancora, dalla persistenza delle competenze acquisite: questi dovrebbero essere i punti focali dell’attenzione di chi accompagna il bambino e anche di chi effettua la verifica.


di Nunzia Vezzola
Docente di scuola superiore e socia fondatrice dell’Associazione Istruzione Famigliare – www.laifitalia.it.

 

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