Se il nostro solo strumento è un martello, ogni problema assomiglierà a un chiodo.
Bill Gates
Durante gli incontri sull’educazione empatica che svolgo a Milano mi capita di ascoltare qualche genitore dire: “Non mi sento una brava mamma” oppure “Ho paura di fare qualcosa di sbagliato nell’educazione di mio figlio”.
Nelle relazioni tra genitori e figli possono capitare dei momenti di sconforto.
Periodi in cui crediamo che ci sia qualcosa di sbagliato in noi o nella relazione con i nostri figli, ci sentiamo frustrati, sopraffatti o arrabbiati.
Questo accade perché ci stiamo allontanando dall’esperienza concreta e stiamo scavando nella nostra testa per giudicare e criticare noi stessi, confrontandoci con qualcosa che riteniamo migliore e giusto.
In questi momenti chiedo ai genitori di mettere da parte i giudizi e concentrarsi su che cosa abbia scatenato tutte queste insicurezze e paure: soffermarsi sui fatti, rimanere ancorati a essi è un buon modo per non giudicare.
Per esempio, se nostro figlio lascia tutti i giochi per terra nella sua stanza, non è utilie dire a noi stessi: “Non sono capace di insegnargli a mettere in ordine”, esprimendo un giudizio, oppure dire a lui: “Sei proprio disordinato, questa stanza è un disastro!”, ancora un giudizio.
Sarebbe più efficace dire: “Caspita, vedo tutti i giochi del cestone per terra”, facendo un’osservazione.
Se ci esprimiamo in questo modo, non feriamo l’autostima di nessuno.
Se riuscissimo a essere più consapevoli dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, scopriremmo che ci possono essere più modi per rispondere a qualcosa che ci accade o che non ci piace.
Quando ci autocritichiamo, ci concentriamo su cosa non va in noi, anziché riconoscere quello di cui abbiamo bisogno. Se poniamo l’attenzione sulle nostre mancanze ci compatiamo, se invece riconosciamo il nostro bisogno (in questo caso, per esempio, di vedere la stanza più ordinata) possiamo concentrarci su ciò che possiamo fare in merito.
Siamo persone che emanano energia: tentare di nascondere i nostri sentimenti o reprimere i nostri bisogni, per poi non esprimerli è altrettanto deleterio, perché ostacola una comunicazione autentica.
Il bambino percepisce ugualmente i nostri sentimenti, sebbene sia confuso sul senso del nostro comportamento. Se ci sentiamo preoccupati, irritati o semplicemente stanchi, trasparirà nei nostri atteggiamenti, nel tono della voce, nello sguardo e nella comunicazione non verbale. Questo turberà tutte le persone che ci sono vicine, anche se non diciamo nulla.
Allora, forse, cercare di essere più autentici con noi stessi e consapevoli dei nostri sentimenti e bisogni, ci aiuta a esprimerli in maniera più empatica.
Potremmo scoprire che, ogni volta che esprimiamo un giudizio, stiamo in realtà parlando dei nostri bisogni frustrati.
Una madre racconta: “Sono severa e mio figlio dice che sono la mamma peggiore che ci sia”.
Questa donna si giudica severa, ma dietro alla sua frase c’è, in realtà, una mamma che desidera il meglio per suo figlio.
In questo caso, lei desidererebbe essere sicura che suo figlio studi a sufficienza, anziché vederlo giocare con i videogiochi, ma la strategia che sceglie per rispondere a questo bisogno, è ripetere a suo figlio dieci volte al giorno che dovrebbe studiare di più, è urlare di smettere di giocare, oppure è togliergli il videogioco dalle mani.
Tutte queste modalità si rivelano poi inefficaci e il figlio a sua volta la giudica dicendole che è la mamma peggiore del mondo.
Dal canto suo, il bambino, di fronte all’agire della madre, potrebbe sentirsi incompreso, risentito e non rispettato.
Nelle relazioni non c’è mai chi ha ragione e chi ha torto. In questo caso madre e figlio alimentano il problema invece di collegarsi con i propri bisogni.
Occorre allora uscire dai ruoli stereotipati di genitori bravi o cattivi, oppure di bambini ubbidienti o capricciosi.
Ognuno cerca di esprimere se stesso nella relazione, al meglio delle sue possibilità, in base alla sua cultura, educazione ed esperienza.
Se il genitore vede ogni problema con suo figlio come un chiodo userà solo il martello come strumento comunicativo, che si traduce in: dare ordini, giudicare, sgridare, fare la morale, imporre.
Queste modalità possono, forse, inibire inizialmente alcuni comportamenti perché incutono paura nel bambino piccolo. Man mano che i figli crescono, avere però solo il modo impositivo per rispondere ai problemi educativi che incontriamo, può portarci a un punto morto. I nostri figli non risponderanno più al potere che vorremmo esercitare su di loro e potranno rispondere con: “No”, “Lasciami in pace”, “Lo faccio dopo”, “Non mi interessa”.
È forse arrivato il tempo di cambiare le nostre modalità comunicative?
A essere consapevoli dei nostri atteggiamenti e a comunicare con empatia si può imparare!
Ampliare i nostri modi di interpretare ciò che ci accade per abbracciare l’umanità che c’è in ogni persona, può aprirci a creare un clima di rispetto e fiducia, in cui non ci sono vincitori e vinti, ma esiste solo uno spazio in cui si accolgono i bisogni di tutti.
Nel concreto, nel caso della mamma che desidera che il figlio studi di più, il genitore può provare a comunicare senza usare un linguaggio giudicante, ma collegandosi a una relazione empatica: “Marco, ti ho visto passare due ore a giocare ai videogiochi, immagino che ti piaccia molto. Stai cercando di superare qualche traguardo?”, mostrando così considerazione e rispetto per gli interessi del figlio.
Allo stesso tempo la mamma può essere preoccupata perché vorrebbe sentirsi sicura riguardo alla gestione del tempo che il figlio dedica allo studio.
Che cosa può fare? Può lasciare che sia il figlio, per primo, a trovare una soluzione che lo riguarda.
Una pedagogia basata sull’empatia ci offre l’opportunità di passare dall’idea che i genitori diano giudizi su ogni problema, al concetto che genitori e figli sono dalla stessa parte e possono risolvere il problema insieme.
di Giuditta Mastrototaro
Pedagogista ed esperta nelle relazioni educative, curatrice del sito Pedagogia basata sull’empatia.