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Il bambino è competente, diamogli fiducia!

Il bambino è competente per definizione, degno della nostra fiducia e del rispetto che si dovrebbe all’adulto. Se non ci metteremo “d’impegno” a interferire con il suo sviluppo, possiamo star certi che compirà il suo percorso in maniera forse non lineare e così cristallina, almeno ai nostri occhi spesso pieni di paura e pregiudizio, ma sicura e determinata.

Federica Villa, docente ed esperta di maternità e genitorialità, riflette sulla necessità di impostare sin da subito una relazione di alleanza con il proprio bambino per favorire lo sviluppo delle sue competenze e autonomia, e sul ruolo fondamentale di collaborazione degli operatori sanitari e degli educatori.

La competenza del bambino nella prospettiva montessoriana (e non solo)

Gli autori che parlano della competenza del bambino, fin dalla nascita e anzi prima , e della necessità per i genitori di fare affidamento direttamente a lui, alle sue risorse e alle sue capacità, prima che agli esperti dei vari campi in cui pensiamo sia doveroso un intervento “preventivo”, sono innumerevoli.
La medicina, le neuroscienze, la psicologia, la pedagogia, per citare alcuni settori, generalmente concordano e hanno una sola voce in questo senso, sebbene le modalità e le “gradazioni” in cui accordare tale fiducia e lasciare che il bambino dispieghi le sue potenzialità non sono certo univoche.
Riconoscere, ancora nel grembo materno, la voce dei suoi cari; nascere e poi arrampicarsi fino a succhiare il prezioso colostro avendo per guida solo l’istinto e l’olfatto; guidare la madre nell’allattamento “a richiesta” e poi nell’alimentazione complementare altrettanto “a richiesta”;  imparare in circa due anni a camminare, padroneggiare una o più lingue e instaurare relazioni significative, sono solo alcuni degli esempi  che si possono portare per descrivere la straordinaria volontà e determinazione del bambino nel compiere un cammino certamente non facile, per forza di cose accidentato, soprattutto quando di mezzo si mettono “i grandi”, siano essi genitori, insegnanti o altre figure che con lui hanno a che fare in misura più o meno significativa.
Figure che, anziché facilitatori, accompagnatori, si pongono spesso “sul piedistallo”, dalla loro prospettiva rilevata e per questo incapace di “vedere” davvero il bambino (o il ragazzo), per dirla con Maria Montessori, spesso in buonafede, ma ancor più di sovente ignorando il reale e perfetto “funzionamento” del piccolo essere umano che hanno di fronte.

Il bambino è competente, in famiglia e a scuola

«Qualsiasi aiuto non necessario è un ostacolo allo sviluppo» affermava Maria Montessori.
Sicuramente si fa prima a dirlo che a farlo, soprattutto quando la società sembra andare tutta decisamente da un’altra parte, suggerendo l’idea di un essere umano sempre più vulnerabile, bisognoso di strumenti e ausili (pensiamo solo al marketing dei prodotti per l’infanzia), prima che di relazioni, spazio, tempo o fiducia.
Quello che mi preme, da insegnante nella fascia puberale, è far riflettere, da un lato, su quanto impostare una relazione di alleanza e collaborazione con il proprio figlio nei primissimi anni di vita possa fare la differenza anche in seguito (per tutta la vita, si potrebbe dire), soprattutto nei famigerati anni dell’adolescenza; e, dall’altro, su quanto poco, purtroppo, il sistema scolastico tradizionale, che pur mira, teoricamente, alla piena realizzazione dell’individuo, metta in pratica, nei fatti, una simile prospettiva.
È certo anche per questo che sempre più famiglie, al di là della situazione sanitaria che stiamo affrontando dallo scorso inverno a questa parte, si stanno rivolgendo a forme di educazione e istruzione “alternative”, siano esse proposte da scuole fuori dal circuito tradizionale o nella forma dell’homeschooling o unschooling.

Competenza ed empowerment, due facce della stessa medaglia

Lasciar fare il bambino, rispettandone i tempi e le modalità di espressione e sviluppo, o, montessorianamente, “aiutarlo a fare da solo”, è una sfida sempre aperta, ma che vale davvero la pena di accettare.
Come spesso accade, chi ben comincia è a metà dell’opera, e l’ideale sarebbe davvero che i genitori imparassero con il bambino, fin dai primi giorni di vita, costruendo un rapporto basato su questi assunti.
Per fare ciò, a loro volta, i genitori devono ovviamente avere fiducia nelle loro stesse capacità, nel loro essere genitori e genitori competenti: è il concetto di empowerment, che lo scorso anno è stato anche il tema della Settimana Mondiale dell’Allattamento.

La responsabilità degli operatori

Purtroppo, alla prova dei fatti, quelli che dovrebbero essere operatori della salute e del benessere delle famiglie (dal ginecologo al pediatra, dall’educatore al maestro) si pongono in una prospettiva ben diversa, forse anche per paura di perdere il loro primato e la loro superiorità culturale.
Sono ancora merce rara i medici che considerano una madre “il miglior pediatra” del proprio bambino, così come quelli che supportano un vero allattamento a richiesta senza scardinare la fiducia nella diade delle madri, o ancora gli insegnanti che si pongono in una modalità di ascolto e collaborazione non giudicante con le famiglie, al posto di puntare il dito sulle mancanze a cui imputano poi le innumerevoli pecche dei loro studenti.
A pensarci bene, quanto si impone ancora troppo spesso ai bambini fin dai primi istanti di vita è una dichiarazione di sfiducia continua, una forma mentis che condanna loro e noi stessi come una maledizione.
Il neonato piange e reclama la madre? Ora non può stare con lei, va lavato e visitato!
Esplora il capezzolo del suo seno ancora un po’ incerto mentre lei non è ancora salda nel tenerlo in braccio? Questo bambino è un po’ pigro, provi a tenerlo così, invece che in questo modo.
Alle soglie dell’anno ancora non muove i primi passi? Hai provato col carrellino?
A due anni non mangia quasi nulla e vorrebbe solo essere allattato? Va assolutamente svezzato, una volta per tutte!
A tre ancora non parla spedito? Io lo manderei dal logopedista, così, per un controllo.
Tolte situazioni di effettiva necessità, patologiche o problematiche e non fisiologiche, che ovviamente necessitano di un intervento qualificato, “meno è meglio”, a cominciare dal parto, sempre più medicalizzato.
Certo, ciò impone un cambio a volte radicale di mentalità, dosi ben più massicce di pazienza, fatica e… tempo!
Nell’epoca in cui si vuole “tutto e subito”, in cui il mercato ci illude ogni giorno sulla facilità e velocità di certe soluzioni, trovare il tempo, fare letteralmente spazio a tutto ciò non è immediato, ma nemmeno impossibile.
Doveroso sarebbe, d’altra parte, che lo stesso personale sanitario o educativo informasse adeguatamente sulle conseguenze, a breve, medio o lungo termine di alcune “scorciatoie” che nell’immediato sembrano semplificare la vita, ma che in realtà privano ulteriormente i figli (e i genitori) delle loro competenze e li inducono, anzi, a comportamenti dannosi per il loro sviluppo. Pensiamo alla facilità e leggerezza con cui si dà un ciuccio o un biberon, con cui si mettono nelle mani di bambini di pochi anni, o addirittura mesi, tablet o cellulari, o si danno farmaci o integratori del tutto inutili per calmare il bambino, farlo dormire meglio o addirittura prevenire supposti malanni.

La scuola e le competenze degli adulti di domani

Tornando all’ambito scolastico, anche qui si osserva sempre più una tendenza ad affrettare e precorrere i tempi, ancora una volta ignorando del tutto la lezione montessoriana, e scambiando spesso per fenomeni patologici e bisognosi di “diagnosi” quelle che sono le naturali diversità e specificità di ognuno.
Nonostante la revisione terminologica e il cambio di paradigma operato da almeno una decina d’anni a questa parte, siamo ben lontani da una effettiva attuazione di percorsi “individualizzati” e “personalizzati”, come vorrebbe la normativa, e ci si trova ancora alle prese con programmi standardizzati, modi, tempi e spazi di apprendimento che ingabbiano anziché stimolare, indirizzare proficuamente e “ispirare” le giovani menti e i giovani cuori.
Facendo un salto non troppo ardito, si potrebbe dire che il risultato di questa sfiducia nelle competenze e risorse del bambino e del giovane, in famiglia e nelle istituzioni educative (alle quali viene delegato tutto ciò che la famiglia non ha saputo o potuto trasmettere, con esiti disastrosi), conduce poi ad adulti incompetenti a più livelli (fisico, emotivo, comportamentale, cognitivo), senza fiducia in loro stessi e proni alla sottomissione e alla dipendenza (del pensiero, innanzitutto) invece che integri, padroni di loro stessi e, anche in tempi difficili, il più possibile del loro destino.


di Federica Villa
Insegnante di scuola superiore di primo grado, mamma alla pari in allattamento e curatrice del blog Dontwasteasunnyday, in cui ragiona di maternità e genitorialità, educazione e vita outdoor.

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