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abbraccio

Oggi il distanziamento sociale viene proposto come mezzo ineludibile per evitare il diffondersi di una pandemia che è rappresentata come il più alto rischio di catastrofe mondiale a cui l’umanità sia stata esposta dalla fine della guerra fredda. Ci vengono proposti mezzi alternativi di “connessione”, come se agitare una mano a distanza di sicurezza, mandare un bacio virtuale con un’emoticon, ammiccare da dietro una mascherina potessero essere equivalenti di un contatto caldo e avvolgente come quello delle braccia.
Si propone questa sostituzione come una nuova normalità a cui ci dovremmo abituare, trasformando l’emergenza in una routine abbellita di nuovi rituali sociali che grazie alla tecnologia dovrebbero permetterci di vivere “come se niente fosse”.
Ma la differenza è profonda, e la rinuncia che ci si sta chiedendo è grave quanto quella di rinunciare a mangiare o bere.
Il nutrimento affettivo non è qualcosa di esclusivamente mentale o emotivo, ma passa attraverso il corpo e crea un legame sociale sostenuto da ormoni e neurotrasmettitori, che hanno nel contatto corporeo e nella vicinanza fisica i loro inneschi fondamentali. L’abbraccio, il contatto, la prossimità non sono “optional” del nostro tessuto sociale ma ne sono il collante fondamentale.

Antonella Sagone, psicologa in area perinatale e consulente professionale in allattamento materno IBCLC, nota come, in fondo, non è che il contatto fisico fosse incoraggiato negli anni passati, tuttavia la nostra cultura ha sempre avuto maggiore tolleranza al contatto e confini più ristretti per quello che è considerato lo “spazio personale” di un individuo: baci, abbracci, strette di mano, carezze sono stati in passato gli strumenti con cui abbattere le barriere sociali e rinsaldare i legami non solo di coppia ma anche di amicizia e solidarietà.

Il significato originario dell’abbraccio

C’era una volta l’abbraccio.
Esprimeva, per esempio, la gioia di rivedere una persona dopo tanto tempo; recava conforto a chi era in condizioni di sofferenza o fragilità; rassicurava chi era preda all’ansia.
Questo gesto così fondamentale, il primo che la madre compie quando per la prima volta incontra suo figlio fuori del grembo, oggi è diventato un atto proibito, ed è stato associato all’idea di contagio, pericolo, violenza. Abbracciare è diventata una pretesa egoistica che mette a rischio proprio i più fragili; maggiore è stato il distacco, maggiore è lo stato di sofferenza, più grande è il vincolo a mantenere le distanze.

Tutti i mammiferi provengono da un abbraccio, quello delle pareti uterine che hanno morbidamente contenuto il piccolo nelle settimane prima di venire al mondo.
Le braccia, per tutti i mammiferi in grado di compiere questo movimento, sostituiscono il grembo materno ricostituendo nel bambino la calma e la “compattezza” del proprio essere.
Un neonato non ha ancora una coscienza chiara dei propri confini corporei, e i suoi sistemi sensoriali e motori si disorganizzano facilmente in condizioni di stress; il contatto pelle a pelle e l’abbraccio lo aiutano a ritrovare il senso di sé e a sentirsi di nuovo intero e integrato.
Nelle scimmie antropomorfe l’abbraccio è praticato ampiamente fra gli adulti, come metodo di conforto immediato dopo una situazione allarmante, e come semplice saluto e ricongiungimento dopo una separazione: esattamente come per noi umani.
L’abbraccio unisce ciò che si era separato, fra gli individui e anche dentro di sé. Ricostituisce quell’unione primale che ogni essere umano ha sperimentato quando era una cosa sola con sua madre. Ristabilisce la connessione. Ricompone i conflitti. Riporta la pace.

L’abbraccio scatena nel nostro corpo (e nella nostra psiche) una cascata neurormonale di enorme potenza, inducendo il rilascio di endorfine (antidolorifiche e alla base delle esperienze estatiche), di dopamina (l’ormone della ricompensa) e soprattutto di ossitocina, un ormone straordinario che non agisce mai da solo, ma modulandosi assieme ad altri orchestra tutti quei processi del nostro corpo e della nostra anima che generano benessere, cura, felicità e amore.

Ossitocina: la chiave del legame affettivo

Parliamo un poco dell’ossitocina, quell’ormone stupefacente che permette all’utero di contrarsi per far nascere il bambino, che presiede sia nell’uomo che nella donna al verificarsi dell’orgasmo, che fa sgorgare il latte dal seno quando il bambino poppa. Un ormone che, a seconda dello stato della persona, si esprime con diverse funzioni e diversi bersagli, di cui quelli legati alla vita riproduttiva non sono che una piccola parte.
L’ossitocina ha una gamma molto ampia di funzioni, fra cui occorre includere quelle di rigenerazione cellulare, e quindi i processi di crescita, riparazione, cura e guarigione; placa le reazioni di paura favorendo la fiducia reciproca e i legami affettivi; ha effetto prosociale, cioè favorisce il senso di coesione interna di un gruppo facilitando la socializzazione e il piacere di stare insieme; stimola i comportamenti esplorativi, la curiosità e il corteggiamento; rinforza il sistema immunitario proteggendolo dalle infezioni e contrasta gli effetti degli ormoni dello stress e dell’aggressività, inducendo un comportamento pacifico e amichevole fra le persone.

La scienziata Kerstin Uvnäs Moberg, autrice del libro Ossitocina, l’ormone dell’amore, ha dedicato tutta la vita allo studio di questa sostanza e al suo ruolo cruciale per controbilanciare gli effetti dell’asse adrenalinico, quello scatenato dalle situazioni di stress e pericolo e che induce nell’uomo i comportamenti di “attacco e fuga”, vitali nelle emergenze ma profondamente distruttivi se prolungati nel tempo.
L’ossitocina si pone quindi come l’ormone della pace e dell’amore, della cura e della connessione, del piacere e della rigenerazione. Rispetto al valore cruciale di un contatto caloroso fra le persone, la Moberg afferma: «La separazione da una persona cara, volontaria o involontaria che sia, ha un potente effetto stressante. È stata confermata una correlazione tra separazione e malattia […]; l’aritmia, l’aumento della pressione sanguigna, della frequenza cardiaca e della coagulazione del sangue, tutti effetti correlati allo stress, predispongono a malattie cardiovascolari e ictus cerebrale. Può darsi che gran parte dello stress vissuto a seguito della morte o della separazione da una persona cara dipenda dall’improvviso venir meno del contatto fisico e, di conseguenza, degli effetti benefici di una relazione affettiva forte. Senza questi stimoli, il rischio di ammalarsi aumenta»¹.

Senza l’effetto contenitivo dell’ossitocina, si lascia campo libero alla paura e alla violenza, accrescendo l’approccio predatorio e aggressivo fra gli individui e dell’umanità verso gli altri viventi e il pianeta che ci ospita tutti: proprio l’approccio che ha contribuito e contribuisce, a livello globale, alla generazione delle pandemie².

La danza degli ormoni

L’ossitocina modula diversamente i suoi effetti e gli organi bersaglio a seconda degli ormoni con cui si accompagna: sembra faciliti la disposizione a fidarsi degli altri³, l’altruismo e la capacità di condividere le emozioni⁴ e, unita alla vasopressina, favorisce i processi di attaccamento e dunque i legami fra le persone, sia amorosi che di amicizia.
Se alla vasopressina si aggiunge la dopamina, l’ossitocina presiede alla scelta del partner e più in generale a ciò che negli altri provoca attrazione, insomma orienta le nostre preferenze verso ciò che “ci piace”.
Ossitocina e dopamina assieme a serotonina e noradrenalina danno a questo slancio una sfumatura romantica⁵.
Quando l’ossitocina lavora insieme a estrogeni, endorfine e serotonina, stimola l’eccitazione sessuale e il piacere erotico.
Agapè, Filìa ed Eros, i tre aspetti dell’amore secondo i filosofi greci, sono tutti lì, nella modulazione di questo ormone, laddove l’eros è l’amore fisico, la filìa quello rappresentato dalle nostre personali predilezioni, e l’agapè è la forma più alta dell’amore, quella che si volge al prossimo in modo altruistico e mediato dalla compassione (con-passione, condividere le emozioni).

Una dimensione irrinunciabile

Ma torniamo agli abbracci, da cui siamo partiti.
Non è forse l’abbraccio la precisa rappresentazione e il mediatore di tutte queste funzioni? Nell’abbraccio gli amanti consumano la loro passione, gli amici si ritrovano, il bambino ritrova la sua sicurezza, la fiducia si rafforza, le comunità si scambiano segni di pace, i conflitti si risolvono, il soccorritore conforta la persona in difficoltà.
Gli abbracci risanano, guariscono, nutrono e uniscono le persone.

Le attuali misure di contenimento dell’epidemia hanno lo scopo di assicurare la sopravvivenza della nostra specie. Ma sopravvivere non è sufficiente, occorre vivere e prosperare.
Il contatto, l’abbraccio, l’empatia che passa anche attraverso un sorriso o una carezza, non possono essere sostituiti da simulacri virtuali o da una mano agitata in lontananza, non più di quanto una flebo di nutrienti possa sostituire un pasto, magari consumato in compagnia, nella convivialità (mangiare assieme, tra l’altro, è un’altra esperienza che secondo gli studi aumenta il tasso di ossitocina).

Il fatto che si sia proposto di rinunciare agli abbracci e che di fatto tale rinuncia sia stata accettata con tanta facilità mostra quanto già prima della pandemia l’umanità avesse perso la capacità di una interconnessione profonda, di quanto gli abbracci già in precedenza fossero trascurati.
Occorre porre rimedio a questa carenza fin da subito, a partire dai neonati e dai bambini piccoli, ai quali per fortuna il contatto fisico non è stato vietato, proteggendo la diade madre-bambino, non separando i neonati alla nascita, proteggendo l’allattamento al seno che è il corollario del primo abbraccio, e non lesinando le braccia ai bambini per timore di “viziarli”: il conforto del contenimento, l’intenso legame che ne nasce, il piacere reciproco di una stretta affettuosa sono il legante del nostro essere sociali, ciò che ci rende più profondamente umani.


di Antonella Sagone
Psicologa in area perinatale, formatrice e consulente professionale in allattamento IBCLC.


¹ K.U. Moberg, Ossitocina, l’ormone dell’amore, Il leone verde, 2019, p. 121.
² Cfr. https://www.bambinonaturale.it/2020/10/allattamento-impatto-ambientale/
³ P. Zak et al., The neurobiology of trust, Scientific American, 2008; 298:62-67.
A. Lane et al., Oxytocin increases willingness to socially share one’s emotions, Int J Psychol 2013; 48:676-81.
E. Fisher, The nature of romantic love, J NHI Research, 1994; 6:59-64.

Commenti (2)

    • Esther Weber

    • 4 anni fa

    Non credo che abbiamo rinunciato agli abbracci. Il distanziamento fisico interpersonale (non sociale!) è una misura difficile da sopportare, a lungo termine, e soprattutto per chi vive solo, per gli adolescenti, per le persone anziane nelle strutture, ma non è la nuova normalità. Chi vive in contesti privilegiati e protetti (un buon spazio abitativo dentro e fuori, magari immerso nel verde e non in un condominio in periferia di una grande città), oggi potrebbe utilizzare questo tempo complesso, che richiede l’attivazione di capacità resilienti, per una riflessione profonda e sincera, al di là del non essere d’accordo con quanto decretato.
    Credo che questo sia un tempo di passaggio e non di una nuova normalità, di riflessione necessaria e non solo oppositiva, perché non c’è più la normalità alla quale possiamo tornare. Possiamo ridefinire l’importanza dell’abbraccio, non quello a chiunque, distratto rituale sociale, ma quello all’interno delle nostre relazioni, anche quelle inaridite, sommerse dall’abitudine e dalla sopportazione e cominciare da lì: a riabbracciarci.

    • Antonella Sagone

    • 4 anni fa

    grazie Esther per aver ricordato che possiamo da subito ricominciare ad abbracciare chi ci è più vicino, ripristinando una abitudine che magari si era persa già da tempo. Non sono oppositiva sulle misure di contenimento necessarie, ma sul tentativo di normalizzazione che di fatto, esiste, laddove vengono separate le madri sane dai loro neonati, e ai bambini vengono insegnate canzoni e poesie sullo stare lontani gli uni dagli altri, condite di mascherine sorridenti. Sono d’accordo con te che questo periodo così complicato diventi uno spazio di riflessione e resilienza, piuttosto che una fuga nel virtuale idealizzando quella che, per quanto possa prolungarsi nel tempo, deve sempre essere considerata una emergenza e non uno stile di vita a cui aspirare.

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