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premi-e-punizioni

Nella scuola di mio figlio, la maestra di arte sceglie di punire i bambini rimanendo a fare lezione in classe, invece di andare nel laboratorio di disegno.
Nella scuola della bambina di un’amica, in ogni aula, è appesa una bella nuvola bianca e un arcobaleno con tanti cartoncini gialli con il nome di ciascun bambino scritto sopra. Per chi si comporta male, la punizione consiste nel togliere dall’arcobaleno il suo cartoncino e nell’appenderlo per qualche giorno su un altro foglio affisso alla parete. Il foglio in questione è grigio scuro e non si capisce cosa debba rappresentare, forse una specie di pozzo, un baratro in cui il piccolo trasgressore viene gettato fino a quando non si riabilita. D’altra parte, a chi si comporta bene (interviene correttamente, non disturba la lezione, riesce a rimanere composto al banco) non solo viene data la possibilità di rimanere sull’arcobaleno, ma riceve anche un premio: un regalo come un piccolo astuccio, una matita con la gomma colorata, un libro da colorare, qualcosa che insomma faccia da rinforzo positivo a un comportamento ritenuto corretto.

I termini maschili usati nel testo sono da intendersi per persone di ogni genere.

Educare un bambino: correzione o relazione di cura?

Punire e premiare è una via facile per educare un bambino. Chi decide infatti di adottare questa strategia educativa decide di:

  • tagliare i ponti con le proprie fatiche genitoriali, quelle che ogni genitore ha nel rivestire il ruolo insieme di educatore e di genitore che ama suo figlio
  • tagliar fuori le incomprensioni tra le due parti (il genitore e il bambino)
  • negare i propri limiti e i propri impedimenti

In un’unica parola si deresponsabilizza, perseguendo la soluzione meno faticosa.
Anziché chiederci perché il bambino non rispetti quella regola, perché continui a mantenere quel comportamento disfunzionale, scorretto, anziché entrare in contatto con lui e con le sue fatiche, le sue caratteristiche e i suoi attriti, anziché chiederci come possiamo aiutarlo, come sostenerlo nella crescita, quando scegliamo di punirlo o premiarlo, scegliamo per la strada più corta anche a danno del bambino, della nostra relazione con lui e sicuramente della reciproca fiducia.
La convinzione che i bambini, anche molto piccoli, siano furbi e manipolatori nasce non solo dall’ignoranza di ciò che è l’evoluzione e la crescita neurobiologica di un bambino, la sua capacità di astrazione, di trarre conclusioni rispetto a un atteggiamento che potrebbe portargli un vantaggio, ma è frutto anche di una diffidenza che fa da sfondo al modo in cui un adulto si relaziona al bambino e che, con ogni probabilità, ha fatto da sfondo anche all’infanzia di quell’adulto. Da quella diffidenza nasce la convinzione che i bambini vadano educati col fine di correggerli e raddrizzarli.
Ma intendere l’educazione come essenzialmente correttiva appartiene a un modo patriarcale di pensare il bambino: lui non conosce nulla; noi siamo chi sa e conosce le leggi, come comportarsi, cosa sia giusto e sbagliato, come interpretare il mondo; lui è piccolo, noi siamo grandi; lui è dipendente, noi siamo autosufficienti; lui obbedisce, noi assegniamo priorità, impartiamo regole e istruzioni su come le cose devono essere fatte; lui non ha autorità, noi siamo l’autorità.
Se il bambino non agisce come vogliamo, troveremo il modo di farglielo fare: con la punizione e con il premio come rinforzo positivo, il bambino apprenderà come desideriamo si comporti.
Se però mi fermo a pensare di punire o premiare un adulto (i genitori, il compagno, la compagna, una collega, il fratello) nello stesso modo in cui potrei fare con mio figlio, se mi immagino insomma l’intera situazione (non pensiamola come strategia educativa, ma solo come situazione relazionale) il primo pensiero che mi salta in testa è che io stia cercando di manipolare l’adulto, che punisco o premio, in modo che agisca come io voglio che agisca.
Perché questo? Perché nel premio e nella punizione non c’è spazio per un rapporto alla pari. Il premio e la punizione possono esistere solo in un rapporto esplicitamente inteso di subordinazione, ovvero in cui è dato per scontato che io sono sopra e l’altro è sotto di me, quindi posso condurlo là dove voglio io, attraverso il bastone o la carota.
Teniamolo sempre presente: quando decidiamo di punire, o di rinforzare un comportamento corretto con un premio, stiamo allenando il bambino, con le buone o con le cattive, ad arrendersi, a piegarsi e a sottomettersi a un’autorità, a un principio. E anche laddove il principio fosse giusto, la punizione e il premio non sono comunque giustificati, perché il bambino lo accetterà non perché ne comprenderà la forza e il valore, ma, continuando a ignorarli, semplicemente si sottometterà a noi.
Eppure per molte persone dare premi e punizioni è una delle strategie educative più efficaci. Per questo motivo, il genitore che decide di non utilizzarla e di scegliere un’educazione più rispettosa del bambino non viene compreso.

Rimanere fedeli ai propri intenti educativi

È difficile essere genitori, sapersi sintonizzare sui propri figli, saperli accogliere, reggere i loro e i nostri errori, reggere la nostra vulnerabilità. L’elenco è lungo: alcune difficoltà sono comuni a tutti, altre sono proprie di ciascuno, della storia che si ha e di quello che si è.
Quando ho iniziato a informarmi sull’educazione dei bambini per capire come comportarmi con mio figlio appena nato, rendermi conto che c’era dell’altro oltre a quello che avevo visto e sentito fino ad allora (qualcosa che era più attento al bambino, alle sue emozioni, al suo stupore, alla sua curiosità, ai suoi sforzi nel comprendere le cose del mondo e se stesso, una modalità di agire e parlare con lui che mi sembrava più valida per raggiungere il mio scopo, cioè crescere mio figlio libero, giusto e felice) ho sentito che quella era la strada su cui volevo incamminarmi con lui. Aderirci è stato spontaneo, ma tenere la rotta, mantenermi su quella strada è stato possibile solo grazie a una buona dose di testardaggine da parte mia, alla condivisione del progetto educativo con mio marito, e soprattutto grazie a mio figlio.
Obbligarmi a rimanere indifferente ai colpi di alcuni familiari e fedele a me stessa è stato faticoso. Fosse stato solo per me, probabilmente avrei ceduto prima, non mi sarei sentita di ingaggiare la battaglia con chi mi criticava tanto spesso, che fosse in modo diretto o sottinteso: ero troppo presente con mio figlio, gli dedicavo troppo tempo e troppe energie, ero troppo disposta ad ascoltarlo, avrei dovuto fare così e così. Ciò che mi ha sostenuto di più, e tuttora mi sostiene, è, come dicevo, mio figlio: sapere che la sua educazione sarà l’eredità più importante che io e il suo papà possiamo lasciargli mi fa forte, e l’idea di rinunciarvi non mi piace. Vederlo impegnarsi nella vita, nelle cose che fa, a scuola, in famiglia, con gli amici e non fare noi due la stessa cosa con lui farebbe di noi un bluff e della nostra educazione un imbroglio.

La sculacciata

Faccio un esempio che può rendere bene l’idea che ho in mente: insegniamo ai bambini che non si picchia e non si fa del male e molti di noi si indignano e si arrabbiano se vedono i loro figli litigare con altri bambini, ma non indugiano ad alzare le mani contro di loro per punirli con quello che chiamano essere solo una sculacciata, uno scapaccione, uno schiaffo dati per correggere il loro comportamento. È evidente la contraddizione?
Vorremmo che loro agissero correttamente e al meglio di quello che riescono a fare, ma non siamo altrettanto esigenti con noi stessi per quel che riguarda il modo in cui agiamo con loro.
Scegliere di educare i bambini secondo la logica della punizione e del premio è scegliere la via più facile, non quella più giusta, perché tralascia e liquida la complessità del bambino e il suo bisogno di essere riconosciuto per l’essere umano che è, per le difficoltà che ha, per gli sbagli che compie.
Il premio e la punizione risolvono la situazione nell’immediato, ci danno un contentino come educatori perché vediamo il bambino agire secondo il nostro desiderio e perché ci regalano l’illusione di avere il controllo della situazione, di ottenere un risultato in maniera efficace, di essere efficienti nel nostro programma educativo, di agire concretamente e in modo consistente. Ma tutto questo è una vittoria di Pirro!
Come un farmaco sintomatico, che risolve il sintomo ma non la causa della malattia, educare un bambino punendolo o premiandolo, ci aiuta a gestire la situazione fastidiosa, il comportamento disturbante, spingendo il bambino ad assumere l’atteggiamento che vogliamo vedere in lui, ma non lavora in profondità, non sorregge il bambino (né noi) a capire cosa c’è che va ripensato, modulato, alleggerito, spronato, incoraggiato nel bambino e nella nostra relazione con lui.
Perché è la relazione a curare, e quando agiamo sulla relazione, quando ci diamo da fare perché la relazione con nostro figlio, un alunno, un nipote, sia valida, significativa, ricca, riverberante, solida, intellettualmente onesta, allora vedremo che anche il bambino si arricchirà in modo totale, cioè in un modo che va oltre la relazione che ha con noi, e che lo definisce dall’interno, nella sua persona, aldilà di noi. Quella è una relazione che lascia il segno.
Ma come può la nostra relazione con il bambino essere solida e onesta se noi per primi ci relazioniamo con lui forzandolo a scegliere per noi e per quello che riteniamo giusto con un premio o con una punizione, senza andare a fondo della problematicità che quel comportamento solleva?
Essere genitori può essere difficile; facciamo in modo che non sia eroico essere bambini.


di Fabiana Pompei
Laureata in Medicina e Chirurgia e specializzata in Scienza dell’Alimentazione. Dopo anni passati in ambulatorio, ora scrive di ciò che più le interessa: nutrizione, educazione alimentare, pedagogia e genitorialità.

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